La mattina del 26 febbraio, le piogge torrenziali portate dal ciclone La Niña hanno provocato la deviazione del fiume Chujlluncani, causando un’inondazione che ha portato via con sé abitazioni e infrastrutture di otto quartieri della città, per un totale di 848 ettari.
“Ho visto il fiume prendersi la casa del muratore laggiù - continua Limber - poi quella di mio figlio e poi la mia. Il giorno dopo, quando il fango si era seccato, ho piantato un palo fino al pavimento del soggiorno per misurare lo strato di terra: erano più o meno tre metri, e le fondamenta devono essere sprofondate per più di un metro. Chi ha costruito la mia casa non ha messo abbastanza cemento e ha fatto male, molto male. Non è stata colpa mia, io avrei voluto metterne un po’ di più ma poi alla fine questo è ciò che è successo. Guarda, qui c’erano tre appartamenti, io ho quattro figli e vivevano là.”
Si calcola che almeno 600 famiglie si trovino in stato di emergenza, non potendo accedere né alle loro case né ai loro averi, sepolti sotto metri di macerie e fango.
Un responsabile dell’Alcaldìa (Municipio) ha dichiarato che il termine dei lavori di riabilitazione dell’area è stato fissato per giugno, prevedendo una prima fase - cominciata la scorsa settimana - volta al recupero di materiali da costruzione e asfalto; una seconda fase di sgombero dei detriti e una terza di riunioni e consulenze tecniche volte a generare progetti di ricostruzione.
Nel frattempo, gli sfollati vivono fra le tendopoli d’emergenza di Kupini e Callapa e i ricoveri allestiti dal municipio e dalle comunità religiose, ricevendo pasti gratuiti nelle mense popolari dei quartieri e beni di prima necessità dal governo, dall’esercito e dalle numerose associazioni che si sono mobilitate nelle ultime due settimane. Molti ancora non si vogliono allontanare dalle proprie abitazioni, come Limber e la sua famiglia per esempio, che ora alloggia in un collegio militare vicino al suo quartiere e di lì non vuole spostare “finché non ci sarà un sistema di vigilanza sui nostri terreni: rischiamo che ci siano furti o che scoppi un incendio nel parco vicino. Quindi no, non ce ne andremo finché qualcuno non si prenderà cura di ciò che è rimasto delle nostre case”.
Nonostante la tragedia in atto e il blocco imposto dall’Alcaldìa alle principali celebrazioni del carnevale, i paceños (abitanti di La Paz) non hanno voluto rinunciare ai festeggiamenti di rito, dalla celebre sfilata dei bambini nel centro alle feste private di uffici e negozi fino alle ch’alla, le benedizioni rituali del martedì grasso, dando luogo ad una riflessione ben espressa dal quotidiano La Prensa nel suo editoriale: “Il carnevale, in un certo senso, può aiutare a dimenticare il disastro in un modo coerente con l’attitudine dei boliviani, poiché esistono tradizioni che né le minacce delle autorità né il senso di perdita possono far dimenticare”.
Per me e Diego, caschi bianco giunti in Bolivia da pochi giorni a servizio del programma Qalauma, Giovani Trasgressori, l’anno di Servizio Civile è cominciato così, fra i colori e il caos, tra le note di un classico carnevale sudamericano, la fragilità di una capitale e la consapevolezza che a La Paz un’inondazione può inghiottire centinaia di case, ma non la forza d’animo e la voglia di ricominciare dei suoi abitanti. Un benvenuto complesso, ma utile per cominciare a comprendere la realtà in cui ci troviamo e nella quale vivremo per i prossimi 12 mesi, a contatto con i giovani detenuti che il Centro di Viacha accoglierà nelle prossime settimane.
Simona Durzu
Casco Bianco ProgettoMondo Mlal Bolivia
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