di Nicolas Derenne, coordinatore ProgettoMondo Mlal Haiti - Il Paese sembra avere imboccato un vicolo cieco. Quasi un milione di senzatetto vivono ancora ammassati sotto le tende e teloni stesi tra un palo e uno spuntone di macerie, in condizioni inumane. Si calcola che fino ad oggi siano state sgombrate soltanto il 5% delle macerie. Ciò impedisce la ricostruzione e rende la capitale un’immensa bidonville.
La comunità internazionale, il governo haitiano e le Organizzazioni umanitarie si rimpallano la responsabilità di ritardi e fallimenti. Tra i problemi rilevati, in particolare l'indecisione del governo haitiano, la mancanza di coordinamento dei Paesi donatori, o ancora la mancanza d'azione della Commissione ad interim per la ricostruzione (Cirh).
I Paesi donatori e le Organizzazioni sono troppo occupate a portare avanti i propri programmi di azione umanitaria, per promuovere un piano globale e integrato insieme alla comunità di questo Paese.
Così gli haitiani guardano questi cooperanti sgommare con le loro grosse macchine, arrivare e ripartire rapidamente. Ovunque nel Paese, e ancora di più a Léogane e Port-au-Prince, le Organizzazioni in un anno si sono moltiplicate in maniera inverosimile. Si incontrano dappertutto loro rappresentanti, spesso giovanissimi, con magliette supergriffate dalla propria organizzazione o gruppo religioso.
Haiti pare diventando il passaggio obbligato nel percorso di formazione allo Sviluppo. Questi giovani non parlano quasi mai creolo, spesso nemmeno il francese. Per lo più in pochi mesi, uno stesso posto passa di mano in mano sotto differenti responsabili. Alla fine della loro missione, avranno assistito a tutte le riunioni in tenda o alle varie operazioni di distribuzione alimenti, ma non avranno mai messo il naso fuori dal proprio presidio, mai ascoltato con un haitiano, mai bevuto un bicchiere di clairin.
Sul fronte dell’Onu, il contingente della Minustah (caschi blu ad Haiti) è passato a 13.000 uomini (quasi il doppio di prima). Ma la sua reputazione è bassa. Vengono visti come una forza d'occupazione dalla maggioranza degli Haitiani e in molti credono abbiano portato il colera.
C'è una grande, insanabile, incomprensione tra haitiani e stranieri. Un articolo del rappresentante dell'OEA (Organizzazione degli Stati Americani), intitolato “Haïti è la prova della sconfitta dell'aiuto internazionale”, denuncia eloquentemente l'inefficienza e il nonsenso di questa missione ad Haïti. Secondo l’articolo, “non è necessaria una forza di prevenzione contro le violenze, ma più autonomia, sovranità, commercio equo e rispetto per gli altri”.
Il presidente, René Préval, accusato di mancanza di autorevolezza e di corruzione, prova a prolungare il proprio mandato di qualche mese. Il procedimento delle elezioni è infatti temporaneamente fermo, in attesa del secondo turno. Questo non avverrà prima di febbraio, dopo una nuova missione dell'OEA, incaricata di pronunciarsi sui numerosi brogli del primo turno (28 novembre) denunciati nelle scorse settimane, consegni le sue conclusioni.
Così ad oggi la situazione nel Paese è ancora bloccata a un assurdo incrocio. E sempre di più espropriata dalle mani degli Haitiani. Il Paese, diventato il centro delle buone volontà dei popoli del mondo intero, il simbolo delle politiche di solidarietà di praticamente tutti i Paesi (dagli Stati Uniti all'Europa, passando per il Senegal o la Cina: Haiti è diventata la Mecca dell'aiuto internazionale), sta diventando una capitale dagli affitti altissimi, crocevia di grandi affari dove si tratta per «comprare il Paese».
E allora: come possiamo salvare gli haitiani da tutto questo? Come possiamo reagire noi, dall'Europa, per portare la nostra solidarietà? Per costruire un mondo più giusto, equilibrato, senza cadere nei rischi perversi dell'imposizione della propria visione o del proprio interesse, come sta accadendo ad Haiti? Come cambiare le cose globalmente, proteggendo però la gente e l'ambiente a livello locale?
Visto da qui, sembra davvero urgente porci queste domande, noi che lavoriamo nei PVS o che vogliamo sentirci legati alla loro situazione.
Dal canto mio posso solo proporre che nella ricerca di soluzioni si abbiano atteggiamenti di maggiore umiltà, rispetto, pazienza. Che non si cerchi di imporre, ma che si provi a sedersi con l'altro, si provi ad ascoltarlo, a lasciarlo fare, si accetti ogni tanto di rimettersi in questione, di imparare a conoscere e capire l’altro.
Ad Haïti, come in Africa, in Italia o in Belgio, il cammino della pace e della giustizia deve sicuramente passare di qua.
Questo 12 gennaio, pensiamo ad Haiti, con umiltà e fraternità.
martedì 11 gennaio 2011
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