giovedì 23 dicembre 2010

Carcere e Mozambico. "Tutte le donne che ho incontrato"

L’operatrice sociale Celia, che fa parte dell'equipe di ProgettoMondo Mlal nel programma di cooperazione allo sviluppo "Vita Dentro" avviato in Mozambico per migliorare le condizioni di vita dei reclusi della Provincia di Nampula, ci racconta uno spaccato della vita nella sezione femminile.
"Ci sono diversi modi di raccontare ‘la vita’ di una sezione femminile. E io, come operatrice sociale, ho l’opportunità di conoscere, ascoltare e percepire il quotidiano di tante donne diverse. Tutte per lo più vivono in un’ottica di “sopravvivenza”. Anche se non è vissuta nello stesso modo da ciascuna.
In prigione le donne si trovano ad affrontare situazioni specifiche gravi, ancora poco conosciute all’esterno e non affrontate dal potere politico: gli episodi di maltrattamento sono frequenti, l’assistenza medica e giuridica è precaria.
A volte, proprio per il rapporto di confidenza che inevitabilmente si è creato con molte di loro, mi sono stati raccontati fatti accaduti e i diversi modi con cui cercano di nascondere i sentimenti provati per poter vivere il quotidiano.
Le detenute arrivano da differenti regioni del Paese, e dunque differenti sono tra loro per cultura, formazione familiare, religione, modo di vivere la maternità o le relazioni affettive. E diverse appaiono se sono sposate o meno, se hanno figli, e a seconda della tipologia di crimine commesso.
Tra loro Tania: è stata condannata a 21 anni di prigione per omicidio. Ne ha già scontati 7 durante i quali è rimasta incinta e ha avuto un figlio, in circostanze non ancora del tutto chiarite. Si dice che il responsabile sia un agente. Lei racconta che, almeno tre volte alla settimana devono bere acqua non potabile (il che provoca diarrea), a volte non c’è acqua per giorni. Dicono che ci sia un problema di condutture potabili. Ma il dubbio che serpeggia tra le detenute è che si tratti di un desiderio di punizione da parte della Direzione del carcere.
Magrethe, condannata a 6 anni di carcere per traffico di droga, ne ha già scontati 3. Ammette di non conoscere la legge penitenziaria. E’ la prima volta che sente parlare di ‘libertà condizionale’ mentre già pensava che sarebbe potuta uscire dal carcere solo al termine della pena.
Ci sono invece donne che vivono il carcere come fosse casa loro e confessano di non volere tornare libere anche perché non saprebbero dove andare.
Poi ci sono donne che si lasciano morire a poco a poco. Non sopportano il silenzio, le forme disciplinari pesanti, le violenze delle altre detenute, le violenze da parte delle agenti, lo sfruttamento, l’alimentazione insufficiente.
Ci sono donne che al carcere ci hanno “fatto l’abitudine” e sostengono che è “comunque meglio della strada”. Queste, per le difficili esperienze e condizioni vissute, hanno imparato ad apprezzare la compagnia delle altre detenute, la sicurezza di un letto e di un pasto, perfino l’idea di vivere in un “albergo”.
Ci sono donne che lavorano molto e rientrano in cella solo per dormire. Per loro il tempo passa più veloce.
Per le donne che sono detenute con i loro bambini c’è un dramma nel dramma. In quanto detenute, solo loro hanno diritto a ricevere un pasto. Ciò significa condannare entrambi alla denutrizione.
Vi sono infine recluse che restano in carcere per poco tempo, sufficiente però perché rimangano traumatizzate a vita. Benché la legge sia di rieducazione, e a favore di un reinserimento dell’individuo, la realtà carceraria è diversa. A volte lascia una cicatrice profonda difficile da cicatrizzare.

Celia, educatrice
equipe Progetto Vita Dentro

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