giovedì 21 aprile 2011

Nei villaggi berberi conoscono Moro e Berlusconi

L’ora concordata per la partenza è le 5.30 del mattino. Si dorme poco, molto poco. Nonostante questo mi sveglio comunque prima dell'ora stabilita, un po’ per la tensione, un po’ per l’emozione di vivere la prima missione sul terreno, la prima visita ai douars interessati dal progetto che stiamo pian piano imparando a conoscere, “Scuola&Sviluppo”.
Alle 5.30 si parte. E’ ancora buio ma leggo i nomi dei paesi che attraversiamo o vicino ai quali passiamo, usciti da Beni Mellal: Souk Sebt, sede di un grande souk regionale, Afourar, dove è nata la famosa Ruby Rubacuori (mi riprometto di fare un foto sotto il cartello di benvenuto alla cittadina, la prossima volta…).
La strada per Azilal, capoluogo provinciale e punto di partenza per le valli dove sono situate le comunità con cui opera ProgettoMondo Mlal, pian piano si inerpica lungo il fianco di una montagna. La vista sulla piana coltivata, fertilissima, della regione di Tadla-Azilal si apre, man mano che la luce si risveglia, come gli abitanti stessi e come i miei occhi; le donne si radunano nella piazza centrale di Afourar e aspettano un passaggio per andare a lavorare nei campi. Sono le 6.30 del mattino.
La strada continua tra curve, guard rail poco attendibili e una natura padrona del panorama. Dopo circa un’ora e mezza di macchina arriviamo ad Azilal, dove ci ricarichiamo con un msemmen fresco di giornata (una sorta di crepes con marmellata o formaggio che la signora prepara sotto i nostri occhi) e incontriamo il nostro autista che ci attende, con la sua Land Rover agée(è un po’ scassata in effetti), per portarci alla meta.
Solo intraprendendo questa prima visita ai douar mi rendo conto di quanto fossero errate le mie percezioni prima di questo viaggio: le distanze che mi ero immaginato sono tutte da ridisegnare, ridiscutere, gli spazi sono molto più grandi, il senso di isolamento, mano a mano che ci avviciniamo ai douars, è sempre più nuovo, sempre più forte.
I villaggi sono a più di tre ore, a volte quattro, di macchina da Azilal, il centro più vicino che possa offrire dei servizi di base maggiori rispetto al piccolo comune montano a cui ogni douar fa riferimento.
Penso all’Italia, a quanto le nostre città sono vicine, a volte appiccicate le une alle altre, senza un intervallo di terra brada; la sensazione di lontananza è sempre più grande.
Le montagne dell’Alto Atlante, sullo sfondo, sono colme di neve e spuntano, come denti, dalle valli che cambiano colore continuamente: rosso, viola, giallo ocra, verdino. Lungo la strada incontriamo molti bimbi: alcuni vanno a scuola, a volte ci sono le mamme che li accompagnano, come ovunque nel mondo, aspettano lungo la strada il passaggio di non so che cosa.
Altri bimbi, spesso bambine, sono invece a cavalcioni su un asino e lo conducono verso il lavoro. Girano appena lo sguardo quando la macchina passa, un’occhiata veloce per poi ritornare al loro trotterellare. Nei campi, qualcuno coltiva come secoli e secoli fa, con un aratro di legno trainato da un mulo.
Le casette di terra dei douars spuntano come funghi dalle colline, alcune sono isolate, altre sono tutte vicine, raggruppate a formare una piccola colonia umana che resiste, aggrappata al costone della montagnola.
Mohammed, un collega che fa parte dell’équipe di terreno, mi fa da guida tra i nomi dei villaggi, le divisioni amministrative dei comuni, i significati amazigh (lingua berbera locale) dei nomi dei luoghi.
Foriamo vicino a un fiume; attimi di ilarità e nervosismo (se ne approfitta per infrattarsi a fare la prima pipì del nuovo giorno) ma in quindici minuti il nostro autista cambia la ruota e possiamo ripartire. Superiamo il douar di Tourtit (“piccolo giardino” in berbero), dove la nostra Ong ha aperto una scuola di Educazione non formale (ENF Education-non-formelle), e dopo un lungo tragitto entriamo in una valle rossa, quasi viola.
Siamo nel comune di Ait Bouilli e qui si trova il douar di Tazoulte, il villaggio “della polvere nera”, il kajal, il trucco che donne e uomini usano per contornarsi gli occhi. Parcheggiamo, il vento è molto forte e fa freddo.
Ci dirigiamo a passo svelto verso la scuola del douar: a Tazoulte è presente sia la scuola pubblica che la scuola Non formale di ProgettoMondo. Entriamo mentre gli scolaretti stanno facendo lezione: non so chi è più imbarazzato tra me e loro, mi sembra quasi di violare un luogo sacro, visti il silenzio e la luce diffusa nella stanza.
Facciamo un giro di strette di mano con i bambini che a stento, per la timidezza e per lo stupore, ci guardano in faccia; abbozzano dei sorrisini, ci guardano di sottecchi, ridacchiano.
La cosa che mi colpisce di più tuttavia è la sensazione al tatto delle loro mani, sono dure, callose, sembrano mani di un lavoratore: sono così diverse dalle mani dei bambini italiani alla loro età. Salutiamo velocemente per far riprendere la lezione all’insegnante e ci incamminiamo verso il centro del douar.
Nel villaggio è stata organizzata una riunione tra i leader della comunità e i rappresentanti di ProgettoMondo per approvare il Piano di Sviluppo del douar e discutere il microprogetto di sviluppo che dev’essere attuato a conclusione del Progetto Scuola e Sviluppo.
I leader del villaggio sono cinque, tra cui un uomo giovane dagli occhi bordati di nero, dalla polvere che appunto dà il nome a questo douar.
Ci accomodiamo in una stanza solitamente riservata ai bambini del prescolare e la discussione ha inizio. Tutto si svolge in lingua amazigh, Mohammed traduce le parole in francese di Marianna e poi conduce la discussione tra le varie figure.
Il più anziano del gruppo parla poco, ma sembra fare degli interventi ironici e puntuali; io non capisco cosa dice ma dal suo modo di parlare, dalla sua espressività comprendo l’arguta ironia delle sue parole. Terminata la riunione (il gruppo si accorda per piantare degli alberi da frutto invece di comprare un toro- genitore per far figliare le mucche), il vecchio saggio ci invita nella sua abitazione per il pranzo.
E’ il mio primo tajine berbero (tradizionale stufato di carni e verdure cotto direttamente nella pentola di coccio a forma piramidale) e per mangiarlo mi devo ricordare di poche, semplici ma basilari regole. Primo: mai, mai mangiare con la sinistra da un piatto comune, la mano sinistra è la mano impura, della pulizia personale e potrei contaminare anche il cibo se la usassi; per un mancino convinto come me è un po’ dura prendere i piselli e la carne con la destra e mi cerco di aiutare con l’immancabile pane. Secondo: non soffiarsi mai il naso a tavola, altro gesto che potrebbe rendere impuro il cibo toccato con le mani messe prima a contatto con il muco.
Prima di iniziare a mangiare, è d’obbligo lavarsi le mani in una tinozza che passa di commensale in commensale, così come la “pezzetta”, comunitaria e dalla dubbia utilità, con cui bisogna asciugarsele.
Il tajine è ottimo, saporito: i rutti di sottofondo ne sanciscono l’apprezzamento unanime. Finito di mangiare, ripassa il famoso recipiente per il lavaggio delle mani (in Marocco non sembrano molto diffusi i tovaglioli) ma questa volta c’è una variante: volendo, è possibile risciacquarsi la bocca e dare una breve pulita ai denti, con sputacchio finale. La prima volta non me la sento di partecipare a questo rito, ma so che è un limite temporaneo: nella seconda visita ai douar avrò infatti già preso confidenza con questa tecnica. Soddisfatti, ringraziamo, shukran e beslama, arrivederci.
Ripartiamo per il secondo douar, distante una decina di km da Tazoulte.
Il panorama cambia, ancora una volta, nonostante la valle che racchiude Iskaoun sia distante solo una decina di km dalla rossa Tazoulte. Il verde chiaro dell’erba e dei cespugli rende quasi le gole intorno al douars più fertili, ospitali, adatte alle comunità degli “uomini liberi” che qui conducono la loro semplice, ciclica, originaria vita; il contrasto con il panorama precedente è evidente e incredibile.
Iskaoun in amazigh significa “corna”, nome, come sempre, non scelto a caso dato che il douar è in realtà composto da due frazioni che si trovano su due sommità di colline attraversate da un piccolo fiume.
Un problema per la comunità, e l’azione di microprogetto negoziata con l’intero villaggio, riguarda proprio l’innocuo fiumiciattolo che, con le piogge, diventa un ostacolo che divide le due parti del douars, rendendo difficile le comunicazioni e gli scambi; si è dunque deciso di costruire un piccolo ponte che possa risolvere questo disagio.
L’autista non ci accompagna; il douar è troppo in pendenza e non è possibile avvicinarsi troppo con la macchina, quindi scendiamo e proseguiamo per un breve tratto a piedi. Gli amazigh camminano lentamente o siedono nei campi, controllando i greggi di capre che pascolano.
Gli uomini passeggiano con il cappuccio della jallaba tirato sulla testa, quando ci incontrano ci salutano a bassa voce, Salam, Salam; le donne sono molto schive in genere, specialmente se sono giovani, a volte cambiano strada per non incrociarci o si nascondo negli arbusti, per pudore credo. Specialmente in questo villaggio ho la sensazione che queste persone facciano parte di un popolo magico, sembrano essere dei personaggi delle fiabe, degli esseri affascinanti, un po’ folletti e un po’ elfi.
A volte sembra che non ci sia nessuno lungo la strada, se ci si guarda solo i piedi o i sassi a qualche metro di distanza: basta però alzare lo sguardo, sulle cime circostanti per scorgere piccoli gruppetti di persone che dall’alto ti guardano, con discrezione ma attentamente. Compaiono, scompaiono, quando te ne accorgi; si materializzano e si smaterializzano con la stessa facilità con cui ti stupisci per un attimo della loro presenza.
Sgambettiamo, un po’ impacciati, per superare il corso d’acqua oggetto della discussione di oggi, i leader sono dall’altra parte che attendono. Pochi passi e arriviamo in un piccola casetta dove si trovano già parte della autorità che prenderanno parte alla discussione; ma si sa, si discute meglio con la pancia piena, anzi pienissima, e, a meno di un’ora di distanza dall’altro pranzo, ci viene servito un altro tajine di carne. Qui l’ospite è sacro e il rifiuto non è contemplato nelle opzioni di comportamento, specialmente quando bisogna negoziare qualcosa. Ne potrebbe andare del successo del progetto stesso; quindi, mangio un po’, per non deludere i nostri amici e per mantenere alto l’onore dell’Ong di cui faccio parte!
Finito il pranzo-bis, la discussione ha inizio: analisi del Piano di sviluppo del douar e microprogetto del ponte, a cui tutta la comunità ha già iniziato a lavorare, spianando i due lati del fiume su cui verrà costruito. La riunione finisce, siamo tutti soddisfatti e possiamo riavviarci alla nostra Land Rover.
Vicino al fiume troviamo un gruppo di bambini, avranno 7- 8 anni al massimo; ci guardano, incuriositi e forse un po’ perplessi, come tutte le persone qui.
Sono ben amalgamati, hanno delle facce molto espressive, sembrano dirti “E questi chi sono?che vogliono?”. Chiedo se posso far loro una foto, non rispondono, sembrano pensierosi ma poi paiono mettersi in posa, anche se qualcuno si nasconde dietro un amico.
Scatto, gliela faccio rivedere: divertiti, si guardano nello schermino della macchinetta e si indicano. Evidentemente questo gioco gli deve essere piaciuto perché ci seguono fino alla macchina, si presentano quando gli chiediamo i nomi, corrono inseguendosi e superandoci.
Ci accompagnano fino alla jeep e ci salutano mentre imbocchiamo la strada del ritorno a Beni Mellal. Scendono la collina e tornano alla loro vita di sempre; la novità del giorno si è esaurita nel giro di venti minuti.
Il ritorno è molto più rilassato per me, provo a indovinare dov'è il douar che abbiamo visitato in mattinata e cerco di ricordarne il nome, parlo con Mohammed di cinema, osservo e non scatto più foto, preso forse dall'ansia di immortalare la bellezza di paesaggi che mai avrei pensato di poter ammirare, almeno non qui in Marocco.
Guardo arrivare la fine della giornata di queste persone che ho incontrato per la prima volta: capisco quanto è semplice la loro vita, pastorizia, raccolta di legna, fatta da donne che letteralmente si accartocciano su se stesse per portarla, raccolta di erbe selvatiche nei campi, piccole coltivazioni di olive o altre piante, e ogni tanto, quando capita qualche piccolo commercio al souk del comune più vicino. Una semplicità fatta di fatiche, scomodità, mancanza di opportunità, e che forse ci affascina perché noi l'abbiamo persa da tanto, tanto tempo.
La meraviglia è il banale comune denominatore di questa giornata.
Anche la nostra seconda visita ai douars è più rilassata, ma non per questo meno intensa; lungo la strada per Timloukine, il villaggio che dobbiamo visitare e dove si ripeterà il “rito” della riunione con i leader, i campi dietro le curve, i baracchini dei centri comunali, il fiume che attraversa la valle mi sembrano già più familiari. Contrariamente agli altri douars, Timloukine è un nome che non ha alcun significato: questo è un piccolo cambiamento rispetto alla settimana prima.
Le persone no invece, loro non mi sembrano così diverse rispetto a quelle già incontrate: i bambini sono sempre interessati alla nostra presenza, le ragazzine e le bambine sono schive, timide, si nascondo ai nostri sguardi e fanno finta di non osservarci, anche se si vede che non è così. All’entrata del villaggio un bambino ci viene incontro, ci saluta e ci prende le mani, le bacia e corre via; una bimba è nascosta nell’erba con un’amichetta, gioco con loro a nascondino, hanno degli occhi grandi.
Questa volta l’oggetto della discussione è il rafforzamento della rete di acqua potabile esistente, che dev’essere ampliata per servire la totalità del douar. Siamo seduti in una stanza incredibilmente bella: il soffitto è completamente decorata con motivi geometrici, i colori sono vivissimi e conferiscono alla sala un’atmosfera di sacro, religioso, quasi fosse una chiesa ancestrale.
E’ affascinante. Questa sacralità non si perde nemmeno nel corso della riunione, quando per la prima volta sento il richiamo del muezzim che si diffonde nella valle; e alla fine del pranzo, quando le autorità del villaggio recitano i primi versi del Corano, la sura di apertura, la Fatiha, e pregano anche per noi, stranieri in terra tamazigh.
Un evento ci “sconvolge” durante il pranzo (e non è la mia dimenticanza della regola della mano sinistra con cui ho mangiato il cous cous, e che ha provocato, hamdulillah, le risa dei miei compagni di piatto, e il mio grande imbarazzo): il vecchio saggio seduto al nostro tavolo ci chiede di Aldo Moro prima ancora di citare l’onnipresente -ebbene sì anche qui in montagna- Silvio Berlusconi. Parliamo della guerra in Libia, di Gheddafi, del perché il nostro premier sia stato così amichevole con il rais e di come invece i marocchini, così come gli altri popoli nordafricani, mal sopportano “il cane pazzo” di Tripoli.
Si ritorna da un’altra strada: rivedo Iskaoun e le valli dopo questo douar. Altri villaggi, altri paesaggi che mi ripropongo di visitare con la giusta lentezza.

Antonino Ferrara
Casco Bianco Marocco
ProgettoMondo Mlal

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