lunedì 11 ottobre 2010

Vargas Llosa, un “biancone” che gli indios non hanno mai amato

Spesso, il destino sceglie per noi qualcosa di meglio dei nostri desideri. Se lo scrittore Mario Vargas Llosa fosse stato eletto presidente del Perù nel 1990, avrebbe forse affrontato, sul lungo periodo, le stesse glorie e gli stessi abissi vissuti sul piano della popolarità da parte dei due corrotti e autoritari “presidenti ricorrenti”, rieletti e scappati dal paese, a turno, fino dagli anni ‘80: Alan Garìa Pèrez e Alberto Fujimori Fujimori, attualmente in carcere per violazione dei diritti umani. Il destino ci ha risparmiato un mediocre politico e ci ha riservato un grande scrittore, che ha saputo descrivere i meccanismi perversi del potere e delle ideologie. Rimessosi in fretta dalla sconfitta elettorale, Vargas Llosa ha continuato a scrivere aprendo sempre più gli orizzonti della sua curiosità, oltre il Perù, oltre l’America Latina, in Medio Oriente, in Europa e sfiorando l’Iraq.
È il vincitore del Nobel per la Letteratura del 2010. Guardo nelle foto i suoi capelli ora bianchi argentati e ricordo quando, già premiatissimo intellettuale (al tempo, Premio Rómulo Gallegos 1967 e Premio Nacional de Novela del Perú 1967, per La casa verde, Premio Príncipe de Asturias de las Letras 1986 – Spagna) era un mio vicino di casa, tra la calle Las Mimosas e il Malecòn di Barranco sul lungomare fiorito di Lima.
L’edificio di Mario Vargas Llosa aveva la forma allungata di una nave bianca. Tre piani fortificati, come le altre ville della zona, di fronte all’oceano Pacifico. Ero molto piccola quando Vargas Llosa si avventurò nelle elezioni presidenziali del 1990, e della sonora sconfitta ad opera del futuro dittatore Fujimori, percepii solo il rancore arrogante dei suoi fan, che quella notte abbracciarono quelle sue mura con l’orgoglio ferito.
Nella sua sconfitta politica, Vargas Llosa scontò il peso della reciproca incomprensione con il suo paese, a maggioranza meticcia e con un 30% di indigeni: l’essere considerato un “blancòn (“biancone”, cioè bianco ricco e pieno di sé) da parte delle classi popolari, che non gli hanno perdonato né la carriera intellettuale sulla doppia sponda Europa-America Latina, né il fatto che successivamente abbia acquistato anche la cittadinanza spagnola.
Memorabile a questo proposito fu un suo spot elettorale, camicia bianchissima, sulle dune desertiche di una banlieu di Lima. “Modernizzare”, lo slogan, fu recepito dai migranti andini come un’offesa ai loro già epici sforzi per crearsi città con acqua potabile quando la Capitale non concedeva alcun diritto sociale ai meno abbienti: gli ultimi arrivati erano gli ultimi nelle priorità. Da parte sua, Vargas Llosa era attratto dalla “questione indigena” nelle Ande e in Amazzonia, ma la inquadrava in uno schema ideologico, appunto, “modernizzante”, di sottile disprezzo verso la profonda alterità culturale del paese, che vedeva come “primitiva”. Non sorprende quindi che l’amore-odio dello scrittore verso il paese di origine fosse visceralmente ricambiato.
Il meglio di sè Vargas Llosa lo ha dato al mondo attraverso la sua scrittura. E ora che essa è finalmente considerata universale, è diventata anche il ponte d’oro che lo riappacifica con il Perù.
Ogni boccone delle sue opere mi ha fatto navigare nel mare immenso della lingua spagnola. Uomo ricco anche di viaggi, ha descritto una varietà impressionante di socializzazioni e di “poteri”.
Quello militare, con i suoi codici di lealtà e di violenza in “La città e i cani”. Quello dell’ipocrisia moralista in “Pantaleòn e le visitatrici”, dove attacca con ironia il perbenismo degli alti comandi militari alle prese con la libido dei soldatini di frontiera, saziabile da una legione di professioniste del piacere.
Soprattutto, il mondo del potere politico e dell’autoritarismo feroce in “La fiesta del caprone”, nomignolo del dittatore dominicano Rafael Trujillo, ennesimo pupillo regalo all’America Latina da parte degli Stati Uniti.
Il piacere dei suoi romanzi veniva raddoppiato nei relativi adattamenti cinematografici. “La zia Giulia e lo scribacchino” negli Stati Uniti diventa “Tune in tomorrow”, diretta da John Amiel (1990) e protagonizzata da Keanu Reeves. “Pantaleone e le visitatrici” (1973) fu codiretta dallo stesso Vargas Llosa e da José María Gutiérrez Santos due anni dopo, in una prima versione ambientata nella Repubblica Dominicana. Fu subito censurata dall’allora regime militare del nazionalista Juan Velasco Alvarado. Una seconda versione fiorì nel penultimo anno (1999) dell’era Fujimori, diretta dal regista peruviano Francisco Lombardi: la protagonista femminile (“la Brasiliana”) insegna a Pantaleone Pantoja che l’unico vero peccato è non amare. Nello schermo, questa Bocca di Rosa tropicale diventa “la Colombiana”, incarnata dall’attrice Angie Cepeda, dalla bellezza scandalosa. “La città e i cani” fu adattata dallo stesso Lombardi in versione cinematografica nel 1985, vincendo il premio alla Migliore Regia nel Festival di San Sebastián. Nel 2006 il peruviano Luis Llosa porta al Festival di Berlino la sua versione di “La festa del caprone”, protagonisti Isabella Rossellini, Juan Diego Botto, Paul Freeman.
Partito da giovanili passioni rivoluzionarie, Vargas Llosa approda rapidamente a posizioni conservatrici, in netto antagonismo con l’eterno rivale colombiano, il filo-castrista Gabriel Garcìa Màrquez, altro glorioso Premio Nobel dell’America Latina, con il quale si narra anche di scontri fisici con tanto di pugni e occhi neri.
È certamente un freddo analista dei vicoli scuri del potere ideologico, sia esso di “sinistra”, come quello (in “Il Paradiso altrove”) di Flora Tristàn, peruviana residente in Francia, pioniera della rivoluzione marxista e delle posizioni femministe), sia quello dell’evasione totale del pittore Paul Gauguin, nipote di Flora, che abbandona sdegnoso l’Europa in fiamme, in cerca del “paradiso” nelle isole del piacere, in mezzo al Pacifico.
Amico del potere, Mario Vargas Llosa. Non quello alla Trujllo. Certamente quello vicino agli interessi forti dell’economia mondiale e della comunicazione globale. Ma anche uno scrittore con il potere straordinario di avvolgere il lettore.
Quando un artista ti rapisce il cuore, non ricordi solo cosa hai letto di lui, ma anche dove l’hai letto.
Lavoravo in una comunità indigena nell’Amazzonia peruviana. Il tramonto era puntuale, come la consapevolezza che stava iniziando “lo spazio degli animali”, e che le persone dovevano rintanarsi nelle case e, meglio ancora, sotto le zanzariere.
Le famiglie estese si ricomponevano dopo la giornata di pesca e commercio, attorno al fuoco. Guardavo la mia stanzetta, all’interno del centro di salute comunitario. L’infermiera era una succulenta signorina di Lima, con una pettinatura anni ‘50, che appena aveva finito di provvedere all’ultimo bambino coi parassiti, tirava fuori dall’armadio l’amante dalla camicia.
Spesso in quell’ora una pigra malinconia mi stiracchiava il cuore: una delle tante “razze” della solitudine. Qual è la peggiore? La nostalgia di un Dio? La mancanza di uno sguardo innamorato? Per me, la fitta più lacerante, era l’assenza della letteratura. Che non ci fosse un trampolino da questa realtà alla fantasia, al viaggio, alla conoscenza. Solo alcuni libri mi concedevano di sprofondare in quell’apnea.
Saccheggiavo le librerie della capitale per portarmi nello zaino i volumi più pesanti in assoluto: che mi durassero tante, tante notti. E c’era “La guerra della fine del mondo”, di Mario Vargas Llosa. Oltre cinquecento pagine di rivolte antirepubblicane nel Brasile dell’ ‘800, da leggere sotto la zanzariera, con la pila puntata nel centro.
E nel mentre, le tarantole, lentamente, scalavano la parete destra della zanzariera: così, per fare un giretto. Ma non mi trovavo lì, ero a Canudos in Brasile, succube anch’io del messianesimo di Antonio Conselheiro. Poteva succedere qualsiasi cosa attorno a me: ero invulnerabile.
Qualche zanzara si era intrufolata da qualche inevitabile foro (anche le zanzariere sono umane), e mi frullava nelle orecchie, nelle narici. Non avendo altro con cui farla fuori, gli spiattellavo sopra “La guerra della fine del mondo”, in due-tre tempi, chiaro – dilatando la molle caduta della zanzariera – come il pallone quando fa gol, e favorendo l’entrata fulminea di altri insetti: i prossimi tormenti aspettavano golosamente sul cuscino.
Ho incrociato Vargas Llosa sul lungomare di Lima e nel teatro dell’Alliançe Française: in entrambi i casi gli ho detto “grazie per avermi salvato dalla solitudine di certe notti”. Entrambe le volte mi rispose: “è questo il potere della letteratura”.

di Azzurra Carpo
ex cooperante ProgettoMondo Mlal in Amazzonia-Perù per il progetto "Indigeni Shipibo"

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