giovedì 16 gennaio 2014

Haiti 4 anni dopo

Port–au-Prince. Il nostro immaginario occidentale, abituato alle commerazioni di tragedie epocali riprese, trasmesse e immortalate da tutti i mezzi multimediali, ci si sarebbe aspettato che alle 16.53 di domenica 12 gennaio lo scorrere del tempo ad Haiti si concedesse una tregua. Ci si sarebbe aspettati di trattenere nella memoria un’immagine statica e muta di una città dinamica e chiassosa come Port-au-Prince. Ci si sarebbe aspettati che riecheggiasse nell’aria il tempo scandito dal suono di una coralità di campane o che si levasse l’urlo delle sirene delle navi del porto, che il cimitero si riempisse di visitatori e che nelle strade si riversasse una marea umana che potesse mettere in evidenza una grande, triste assenza.
Alle 16.53 un lungo suono di sirene a Champs de Mars, boulevard centrale dove aveva luogo la cerimonia ufficiale presieduta dal presidente Michel Martelly, risuonava in lontananza alla radio. Una celebrazione sotto tono per ricordare le 300.000 vittime del terremoto che ha fortemente scosso il cuore di Haiti quel fatidico giorno di gennaio nel 2010. Articoli sui giornali, messe celebrative, obbligo di trasmissioni sobrie alla radio, una breve offerta floreale al memoriale costruito a nord della capitale e una commemorazione ufficiale in pieno centro, hanno solo attutito e ridimensionato la vitalità del popolo haitiano in una soleggiata e ventilata domenica di metà gennaio. Il vestito buono è uscito dall’armadio, come ogni domenica, per il tradizionale appuntamento mattutino della messa e non per la eccezionalità di un evento da presenziare.
Alle 16:53, nelle strade, le donne del mercato continuavano a trattare con le clienti ritardatarie del pomeriggio; gli autisti dei mototaxi, ragazzotti appena ventenni preoccupati per la scarsità di benzina che paralizza i trasporti in questi giorni, continuavano a discutere animatamente, a intrattenere clienti o a lanciare apprezzamenti alle fanciulle; un uomo di età indefinita, con la fronte madida di sudore, avanzava con il suo carretto, piegato sotto il peso della mole spropositata di legna accatastata sul trabiccolo a due ruote.
Pochi, in proporzione alla significatività della giornata, i visitatori del cimitero cittadino che si raccoglievano in segno di lutto davanti al piccolo mausoleo. All’entrata di un hotel della capitale, un concierge annoiato spezzava la monotonia del lavoro, domandandoci se potesse fare qualcosa per noi..
Non si può certo dire che in quest’occasione il dolore sia stato massificato e spettacolarizzato. È rimasto qualcosa di personale, condiviso in un ricordo a pranzo con la famiglia, in un saluto al cimitero, o esorcizzato in un energetico canto nella messa mattutina.
In occasione della ricorrenza, dalla società civile sono state espresse molte critiche al governo di Martelly, accusato di non aver improntato una ricostruzione nel segno dei diritti umani, di aver avuto una mancanza di visione per il futuro del Paese, di non aver saputo sfruttare a beneficio di tutti l’opportunità dell’ingente somma di denaro arrivata dall’aiuto internazionale, e di avere infine favorito ditte straniere nelle grandi opere.
Le critiche non sono state risparmiate nemmeno alle organizzazioni di aiuto umanitario, che progressivamente stanno lasciando il Paese, nonostante più voci indichino che i lavori di ricostruzione siano solo “appena cominciati”. Secondo i quotidiani locali che riportano fonti della Rete Nazionale di Difesa dei Diritti Umani (RNDHH), dopo 4 anni più di 170.000 persone vivrebbero ancora in alloggi provvisori e di fortuna.

Valentina Policarpi
ProgettoMondo Mlal Haiti

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