lunedì 11 agosto 2014

Sovranità alimentare in Bolivia

Una coltivazione di quinoa
Ultimamente si parla tanto di “sovranità alimentare”, qui in Bolivia come nel resto del mondo. Questa è diventata, dopo “agroecologia” o “sviluppo sostenibile”, l'ennesimo grande concetto alla moda per dire tutto e niente. Lo usano sindacati agricoli, Ong, movimenti sociali e ormai anche numerosi governi, in Europa come in America Latina o Africa; questo senza però preoccuparsi di condividere un termine che muta spesso significato a seconda di chi ne fa uso.
Questo problema affonda le sue radici nella complessità della sua evoluzione come concetto a partire dal 1996, quando compare per la prima volta.
Il concetto di “sovranità alimentare” viene definito dal sindacato contadino internazionale, “Via Campesina”, come “il diritto di ogni nazione di preservare la sua capacità di produrre i suoi alimenti di base nel rispetto della diversità di culture e di prodotti”.
Esso si pone in contrapposizione a quello di “sicurezza alimentare”, coniato nel World Food Summit del ‘96 per definire la situazione in cui “tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana” ed utilizzato anche di recente dalle Nazioni Unite per denunciare le possibili derive produttiviste e mercantiliste delle politiche agrarie nazionali causate dai trattati di libero commercio approvati di recente.
Come verrebbe garantita infatti la sicurezza alimentare? Forse vendendo ai Sud del mondo gli eccedenti dell'agricoltura sovvenzionata del Nord? Imponendo un modello produttivo e nutrizionale occidentale basato sullo sviluppo tecnologico ed economico? O invece lasciando autonomia organizzativa all'agricoltura famigliare e contadina in ogni regione, in base alla propria tradizione?
Se da un lato, infatti, il concetto di sicurezza alimentare pone la questione di garantire a tutti il diritto al cibo, dall’altro rischia di cadere nel modello “sviluppista”, secondo cui l’unica via possibile per garantirlo sia ricalcare archetipi di tipo occidentale.
Queste e altre questioni sono state discusse per più di un decennio all'interno di Via Campesina, allargando notevolmente la definizione per comprendere meglio la distribuzione, il consumo e le problematiche legate al Nord del mondo (abbandono delle terre, sovvenzioni, …), e arricchendola a tal punto da renderla tanto affascinante, quanto facilmente reinterpretabile a seconda della necessità.
In Bolivia, inoltre, questo concetto non è solo stato utilizzato dalle istituzioni che si occupano di cooperazione e dalle Ong, ma è entrato a far parte dello stesso corpus legislativo dello Stato Plurinazionale.
Sorvolando le possibili intenzioni propagandistiche di questa decisione del Governo boliviano, mi preme piuttosto sottolineare due effetti di questa scelta: l'enorme semplificazione del concetto, dovuta alla sua trasposizione in legge; l’incompatibilità tra questa legge e gli effetti generati da molte politiche boliviane che sembrano muoversi in direzione opposta.
Infatti, al di là dei discorsi pubblici incentrati sull'agricoltura comunitaria contadina, sui beni comuni e sull'obiettivo della sostenibilità, a giudicare dalle leggi che la regolano sembra invece che la sovranità alimentare in Bolivia si traduca semplicemente nella ricerca di una sorta di autarchia alimentare, gestita possibilmente da imprese nazionalizzate.
La vastità della proposta della Via Campesina viene quindi trasformata in un semplice obiettivo quantitativo che soppesa importazioni ed esportazioni, ponendo lo Stato nazionale come ago della bilancia.
E in ogni caso sembra che le politiche messe in atto fin ad ora non siano in grado di raggiungere questa meta. Mentre si stimola l'esportazione di prodotti tanto “coloniali” (caffè, cacao, soia..) quanto “tradizionali” (la quinoa su tutti), non diminuisce invece la quantità di beni alimentari importati.
Ecco quindi come di fronte a queste contraddizioni la sovranità alimentare, in Bolivia come altrove, resta un concetto astratto, che suona bene su carta ma è destinato poi a consumarsi in una realtà che non è pronta ad accoglierlo.

Marco Goldin
Casco Bianco a Cochabamba
ProgettoMondo Bolivia

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