Due giorni fa, l’11 ottobre, è iniziato lo sciopero della fame in tutte le carceri di La Paz e in alcune delle città della Bolivia: le carceri sono in stato d’emergenza. I detenuti rivendicano i loro diritti: pretendono che il cibo sia migliore e senza tranquillanti, che si assegnino medici e infermieri con farmaci a disposizione dei detenuti e assistenza medica notturna, che ci siano riparazioni nelle infrastrutture. I giovani chiedono che sia rispettata la legge 22-98, che prevede che gli adolescenti scontino la pena in un ambiente separato dagli adulti, le donne abbiano un adeguato livello di nutrizione e una buona assistenza ginecologica e i bambini non vivano più nelle carceri. Inoltre, secondo l’articolo 110 della Legge di Esecuzione Penale le persone che superano i 60 anni d’età devono scontare la loro pena agli arresti domiciliari il che, peraltro, risolverebbe parte del sovraffollamento.
Lo sciopero della fame nelle carceri “paralizza il commercio”: nessuno entra e nessuno esce. Non c’è commercio di droga né di alcol, i turisti non possono entrare e neanche i poliziotti.
E in tutto questo i giornali hanno aspettato ben 24 ore per dare la notizia. Ma come? Non è di tutti il diritto di far sentire la propria voce, insieme a quello di non essere discriminati?
Proprio in questo momento politico nel Paese c’è un forte dibattito su quello che si chiama la legge della discriminazione: chi discrimina può essere accusato. C’è uno sciopero dei giornalisti per quella che chiamano “la ley de la mordaza” nel senso che ai mezzi di comunicazione viene chiusa la bocca. Lo slogan più comune è: “sin libertad de expresión no hay democracia”.
In Bolivia i mass media battono il chiodo sulla discriminazione culturale senza considerare che in ogni istante della giornata c'è chi discrimina chi gli è accanto. La discriminazione sociale dello Stato si nota dalla mancanza dei diritti della persona: la maggior parte di queste categorie non è tutelata da diritti umani, primi fra tutti i detenuti e gli ex detenuti.
Il carcere di San Pedro a La Paz - dove ProgettoMondo Mlal sta realizzando il programma "Qalauma, giovani trasgressori" per reintegrare nella società adolescenti emarginati - ospita 1600 persone, anche se l’infrastruttura è stata progettata per accoglierne 400.
Sono 9 mila le persone detenute nelle carceri boliviane, rispetto ai 10 milioni che popolano il paese. Di queste, 8mila sono ancora in attesa di condanna. I detenuti pagano 200 pesos boliviani (circa 20 euro) nel momento in cui sono arrestati, pagano un affitto della cella di minimo 150 pesos boliviani (una persona vive dignitosamente con 10 pesos boliviani al giorno) e in carcere, persino lavarsi con l’acqua calda ha un costo: pari a 0.50 pesos. I detenuti ricevono un solo pasto al giorno: 3 volte alla settimana ricevono carne, i restanti 4 giorni mangiano zuppa di verdura. L’assistenza medica è poco costante, non ci sono farmaci nel carcere e nessuno li dona: i più fortunati hanno parenti o amici che comprano farmaci fuori dal carcere e, come se non bastasse, San Pedro è diventata l’attrazione turistica della città: i turisti pagano per entrare a visitare il carcere, per comprare economicamente i suoi “prodotti” e per dire “io ho visto un carcere in Bolivia” . Di fronte a tutto questo c’è da chiedersi dove siano i diritti umani. San Pedro è diventato l’attrazione di La Paz.... ma cosa resta ai detenuti? Sono visti come persone o come criminali psicopatici con personalità devianti? Che futuro ha una persona che è stata in San Pedro?
E tutto questo mentre, il 12 ottobre, nel mondo si festeggia la giornata dell’intercultura: anche in Bolivia, da quando c’è Evo Morales. Queste terre che godono di meraviglie terrestri inserite in tutti i microclimi possibili, accolgono le molteplici e differenti popolazioni: la cultura quechua dell’altopiano di Potosi, Oruro e Cochabamba, la cultura aymara dell’altopiano di La Paz, gli afroamericani della regione de los yungas, i “falsi europei” di Sorata, i boliviani “alla moda” di Santa Cruz, i campesinos delle zone rurali, i tropicali di Beni e Pando e tutti gli immigrati che vivono in Bolivia: brasiliani, argentini, capo verdiani, keniani, spagnoli, nord americani, messicani, portoriqueñi, equadoriani, inglesi, tedeschi, nord americani, canadesi, cinesi, francesi, cileni, colombiani, giapponesi e, gli immancabili, italiani.
La Bolivia sembra un paese omogeneo ma in realtà nasconde molte diversità. I conflitti tra culture diverse sono secolari e sono sempre stato oggetto di agevolazioni politiche e di benefici per i potenti.
Prima di questo governo i campesinos (i contadini) erano oggetto di grande discriminazione: non avevano accesso all’istruzione pubblica, al voto elettorale, all’assistenza sanitaria, all’utilizzo di trasporti pubblici, al diritto al lavoro e alla libera espressione. Secondo la visione estrema del Paese, los campesinos erano una piaga della società boliviana, un impedimento allo sviluppo socio-economico del Paese, dei parassiti sociali.
Il governo di Evo Morales ha cambiato i ruoli sociali: il potere dei campesinos sta cambiando il Paese ma a molti boliviani questo non va ancora giù. Ci sono voluti anni affinchè la società boliviana potesse accettare questo forte cambiamento a prezzo del rifiuto e della discriminazione.
Ma anche in questo caso c’è un grande paradosso: i mass media parlano della discriminazione relativa a los campesinos senza considerare che la discriminazione riguarda tutto un sistema sociale. Il bambino di strada, il lustrascarpe, l’inalatore di colla, l’ubriaco, il drogato, il povero, l’ignorante, il cieco, il disabile, lo straniero, il gringo, il pazzo, il mal vestito, il portatore di AIDS, la ragazza facile, il maschilista, la sottomessa, il ladro, lo spacciatore, lo stupratore, il detenuto e l’ex detenuto. Alcune di queste “etichette” si trovano in tutto il mondo ma la questione difficile da capire è: cosa fa il sistema per combattere queste categorie?
Ester Bianchini
casco bianco ProgettoMondo Mlal Bolivia
mercoledì 13 ottobre 2010
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