Bambini che vivono in strade senza spazi per giocare. Senza piazze, campi da calcio o giardini in cui correre. E il cui massimo svago è quello di lanciare i sassi contro i carri armati che entrano nel campo profughi in cui vivono. Sono quasi 4 mila i piccoli palestinesi che abitano nel campo Aida di Betlemme, in un contesto che ospita circa 6 mila abitanti.
Per loro la parola pace è difficile da figurare, abituati a soldati, spari, limitazioni continue alla loro libertà e per questo pieni di tanta energia repressa che non vedono l’ora di sfogare. Una possibilità, quella di scaricare lo stress e la voglia di “evasione”, che oggi viene in parte offerta loro dall’associazione Al Rowwad, una realtà nata nel campo circa 15 anni fa e che ora, grazie a un finanziamento europeo, sta mettendo in pratica nuove modalità di gioco per coinvolgere e andare incontro alle difficoltà di bambini, e non solo. Lo fa con un’officina per realizzare giochi con materiale di recupero, spazi in cui svolgere laboratori di teatro, ginnastica o arte e soprattutto tanta voglia di entrare in contatto con la cittadinanza, spesso anche adulta.
Tre in tutto gli operatori, costretti a volte a confrontarsi con gruppi di persino 500 bambini. Ma che lo fanno con un impegno e una tenacia che, con tutte le difficoltà del caso, li portano a dare il massimo dell’entusiasmo e della convinzione, per permettere ai piccoli di oggi di crescere qualche possibilità di “normalità” in più e in una realtà il più possibile adatta alla loro età.
Due degli operatori, Ramzi, 26enne laureato in psicologia e Maher di soli 21 anni, sono a Verona in questi giorni in occasione della manifestazione “Territori in gioco” che, tra l’8 e il 10 ottobre vedrà scendere nelle piazze della Valpolicella una trentina di associazioni impegnate a confrontarsi sui temi dell’intercultura e dell’ecologia tramite appunto il gioco, in particolare con la metodologia del Ludobus. Una realtà, quella del bus attrezzato, che è stata recentemente adottata anche per i bambini del campo profughi di Aida.
“Vogliamo che i bambini costretti a vivere nel campo non debbano affrontare da soli i traumi che noi stessi abbiamo vissuto da piccoli”, dicono gli operatori. “Alcuni hanno perso una gamba, altri hanno genitori morti o in prigione. Si avvicinano alle nostre attività con timore o con una rabbia repressa che li porta a distruggere i giochi che diamo loro. Ma con il tempo stanno capendo che quei giochi sono i loro giochi e che ognuno di loro ha la possibilità di giocare a fianco dell’altro”.
Ogni giorno gli operatori si spostano in parti diverse del campo. Fissano un cartello in strada per segnalare la loro presenza e renderla quindi chiusa al traffico, e propongono una serie di attività a bambini e ragazzi. “Le scuole sono spesso in sciopero e i bambini, come del resto gli adulti, si annoiano. A volte poi, con i militari in strada, non escono nemmeno per incontrarsi tra loro e in ogni caso le case sono l’una attaccata all’altra e gli spazi davvero limitati. Noi vogliamo fare in modo che questi bambini siano più tranquilli, che non siano abbandonati a loro stessi. Li attiriamo con giochi semplici realizzati con materiale povero e di scarto e poi, mano a mano, sono loro stessi a insegnare i giochi che proponiamo ai nuovi arrivati”.
Una realtà, quella del campo, difficile da immaginare per chi non c’è nato e non ci si confronta quotidianamente. E in grado persino di svuotare il significato di parole per noi quasi scontate come la pace o la capacità di sognare un futuro che non sia solo di rivendicazione e senso di giustizia.
venerdì 8 ottobre 2010
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