mercoledì 16 dicembre 2015

Burkina, imparare a nutrirsi per insegnarlo alla comunità

A fine novembre mi sono spostata a Ouessa, un piccolo villaggio del Burkina Faso al confine con il Ghana, per seguire la formazione nell’ambito del progetto di salute comunitaria Sui sentieri della Salute, che mi impegna in quest’anno di servizio civile.
Il progetto, in una prima fase, ha visto la formazione di infermieri incaricati nella divulgazione e promozione di buone pratiche inerenti al campo igienico-sanitario e alimentare.
Contemporaneamente a questa prima fase, si è svolta l’attivazione delle Cellule di Educazione Nutrizionale (CEN), che fungono da collegamento diretto tra il personale medico e gli abitanti del villaggio. Indirettamente ho seguito la difficoltà di questa attività: parte dell’equipe di progetto ha organizzato incontri nei villaggi, inizialmente spiegando il progetto e le sue attività e chiedendo poi disponibilità e volontà di partecipare al progetto. Sono state quindi identificate delle figure che formano “il direttivo” della CEN: presidente e vice-presidente, segretario, tesoriere, responsabile all’organizzazione, responsabile all’informazione e animatori, quest’ultimi chiamati a svolgere un ruolo di “agenti di salute comunitaria”. Sono tante le difficoltà riscontrate a causa dei tabù presenti nei villaggi, ma è tanta anche la forza di volontà della gente locale per migliorare le proprie condizioni di vita.
A Ouessa si è svolta la seconda fase della formazione, quella degli agenti di salute comunitaria (animatori). In queste cinque giornate hanno partecipato i primi trenta animatori dei seicento totali, 4 per ogni villaggio e per un totale di 150 villaggi scelti. Ouessa rappresenta uno dei primi poli formativi per i primi sei villaggi.
Mi immagino lo sforzo di questa gente a spostarsi: ci sono persone che per raggiungere il loro polo formativo devono percorrere anche 10-20 chilometri. Molti preferiscono trovare ospitalità da parenti nel villaggio di Ouessa.
L’appuntamento era alle 8 del mattino. I partecipanti erano tutti lì ad aspettarci. In questi posti la donna non sempre riesce ad affidare il figlio più piccolo ai parenti così, la formazione era accompagnata anche dal pianto di qualche bambino.
Degli animatori presenti alla formazione non tutti sapevano parlare francese, la lingua ufficiale del Paese. Nonostante questo, i partecipanti sono riusciti a creare quella giusta atmosfera di aiuto reciproco alla comprensione: sembrava partecipare a piccoli spettacoli dove gesti e disegni sostituivano le parole e aprivano al sorriso.
Era chiara la forza di volontà di apprendere ciò che veniva mostrato.
“Capiamo la fortuna di poter di partecipare a delle formazioni che possano aiutare noi e gli abitanti dei nostri villaggi a risolvere uno dei tanti problemi che colpisce i nostri figli”, ha detto una delle animatrici presenti alla formazione. Ma è non sempre così. Nei villaggi il consenso a introdurre o rimuovere certe pratiche o abitudini deve superare, attraverso la sensibilizzazione, l’ostacolo dei tabù e delle autorità imposte dai mariti alle donne interpellate.
Per quest’ultimo motivo, nella scelta degli animatori, si è cercato di privilegiare la donna.
“Le animatrici delle CEN sono integrate nei Comitati di Nutrizione del Villaggio e nei Comitati di Sviluppo del Villaggio” spiega Rosalie Midjour, infermiera incaricata di seguire le formazioni del comune di Dano.
Nei primi giorni della formazione si è parlato molto di igiene, della giusta alimentazione e della prevenzione della donna incinta. Non è semplice in questi posti trovare gente che conosca i veri motivi della trasmissione di malattie e dell’importanza dell’igiene del corpo, alimentare e dei luoghi domestici. Non bisogna dare per scontato che siano note le proprietà dei vari cibi: quale alimento contenga le proteine, quale le vitamine quale i grassi. Non bisogna dare per scontato che si conosca il divieto di fumo, di bere alcol e di fare lavori pesanti durante il periodo di maternità.
Ciò che per noi è ovvio, per altri non lo è.
La formazione, negli ultimi due giorni, si è conclusa con delle dimostrazioni pratiche. Si poteva parlare di veri e propri corsi di cucina, dove donne e uomini erano chiamati a mettere in pratica ciò che avevano appreso nei giorni precedenti: pappette fatte da tre farine che costituiscono la base per l’alimentazione infantile, l’aggiunta di proteine, di grassi e di zuccheri nella nutrizione del bambino.
In quest’ottica, oltre al materiale didattico, è stato affidato a ogni Cellula di Educazione Nutrizionale un kit culinario, così da incaricare direttamente gli animatori/abitanti del villaggio nella pratica di promozione e sensibilizzazione, non solo concettuale ma anche pratica.
Questa formazione è stata uno strumento che ha permesso alla gente di ascoltare, scoprire, confrontarsi e infine diventare un mezzo di sviluppo.  

Veronica Brugaletta
Casco Bianco Cvcs-ProgettoMondo Mlal in Burkina Faso

lunedì 14 dicembre 2015

Burkina, mamme coraggio contro la fame

“Non avrei mai creduto che una pappina potesse salvare mio figlio. E soprattutto che avrei potuto farlo io stessa cucinando per lui i prodotti del mio villaggio!”
La storia di mamma Salimata è la prova vivente di un lento ma inesorabile cambiamento culturale e generazionale che ha già come protagoniste centinaia di mamme del Burkina Faso. Così come Salimata, in due anni, altre 200 mila donne hanno infatti imparato a riconoscere la malnutrizione, a prevenirla e a curarla e, quindi, a insegnare ad altrettante donne a fare lo stesso. Non c’è infatti miglior aiuto dell’esempio e non c’è migliore risorsa del coraggio di una mamma.
Il programma di lotta alla fame “Mamma!” che sta portando avanti ProgettoMondo Mlal in Burkina Faso ha creato in 3 anni un piccolo miracolo. Praticamente, scommettendo sull’educazione delle madri e il protagonismo della donna, ha visto crescere un esercito pacifico di mamme che si sono appropriate di informazioni e ricette e hanno ingaggiato una battaglia lunga e silenziosa per fare ciò che non è riuscito al 1° Obiettivo del Millennio: sconfiggere la fame.
Le donne come Salimata non chiedono cibo, denaro o commiserazione. Hanno fame di informazioni, formazione, consigli, ricette perché possano loro stesse farsi carico del problema.
“Quando al nostro villaggio sono arrivate un gruppo di donne a chiederci di visitare i nostri bambini –confessa con naturalezza Salimata- io mi vergognavo di quanto fosse magro e poco vivace mio figlio rispetto agli altri. Poi gli hanno misurato il braccino e mi hanno spiegato che il motivo era che non mangiava bene, e che dovevo integrare, alla mia pappa di farina di miglio, anche dei fagiolini e dello zucchero. E mi hanno fatto vedere come avrei dovuto prepararla. Così mio figlio ha ricominciato a mangiare con gusto e finalmente ha iniziato a camminare…”.
Nelle aree rurali del Burkina Faso si contano ancora 35 mila morti all’anno per malnutrizione, i tassi di malnutrizione infantile cronica sono tra i più alti nel mondo. Eppure negli stessi villaggi si produce cibo a sufficienza, e anche l’accesso a quanto viene prodotto non sarebbe di per sé assolutamente proibitivo.
Le concause sono diverse, ignoranza, carenza di informazioni e di pratiche ormai per noi assodate.
Così, il non sapere quanto sia importante per esempio l’allattamento al seno fino ai 6 mesi, diventa decisivo. La donna, perché lavora o perché ha più figli piccoli, sostituisce troppo presto il latte con una inconsistente tisana di erbe. Non conosce le regole base dello svezzamento o i valori nutrizionali dei vari alimenti; non sa che la dieta giornaliera deve contare anche sulle proteine (che non sono per forza carne ma anche legumi, latte, uova), non conosce altre ricette se non quella a base di cereali che si tramanda da 100 anni di famiglia in famiglia. Senza contare che la donna, priva di un ruolo al di fuori della famiglia, non ha concretamente l’opportunità e l’appoggio dell’uomo e della comunità per cambiare le regole del gioco.
Il coraggio e l’orgoglio femminile possono muovere le montagne. Così, anche nel piccolo villaggio di Mapara, escluso dal programma di formazione dell’Ong italiana, le donne sono andate di persona ad assistere alle dimostrazioni negli altri villaggi. Hanno fatto tesoro di quanto visto e sentito e, da sole, hanno fedelmente replicato nel loro villaggio: “Non sapevamo di quale malattia si trattasse ma – ci dice una di queste donne, Lidiane- non passava mese che non seppellissimo un bambino di meno di 5 anni”. Quando abbiamo capito cos’era (malnutrizione, ndr.), e come evitarla abbiamo fatto in modo che gli agricoltori del villaggio mettessero a disposizione alcuni prodotti della zona e che 3 donne di noi imparassero a preparare delle pappe ipernutrienti.
Da quando si svolgono queste attività, la malnutrizione è praticamente sparita dal villaggio.

Lucia Filippi, ProgettoMondo Mlal

DONAZIONI
Iban IT 07 J 05018 12101 000000511320
Causale “progetto Mamma!”
Intestato a ProgettoMondo Mlal onlus

Bolivia, sicurezza alimentare per i campesinos

Emila Quispe avrà circa 65 anni, sorride a tre denti perché ormai ha solamente quelli. È seduta a fianco delle sue quattro amiche coltivatrici. Masticano foglie di coca per sopportare il sole, la fame, la sete e la fatica di quella giornata.
Emilia ha la pelle bruciata dal sole e le mani consumate dal lavoro. Ha avuto 9 figli che se ne sono andati tutti in città perché in campagna, nella comunità di Totorani del municipio di Calamarca, a 6km a piedi dalla strada principale e distante 40 km da El Alto, non hanno visto un futuro per loro. Non hanno tutti i torti.
Emilia però è rimasta sola, suo marito è morto. Fatica molto a camminare e dovrebbe essere operata alle ginocchia, ma ovviamente i soldi non li ha. Non parla molto bene il castigliano perché è una chola Aymara e con solo 3 denti è difficile articolare frasi comprensibili. Riesce comunque a farsi capire e ci racconta che ha un piccolo campo che lavora da sola: zappa la terra, semina e raccoglie i frutti della Pachamama (la Madre Terra) a cui è molto grata.
Quest'anno però, per la sua invalidità, ha seminato solo una piccola parte del suo campo e quindi vedrà crescere soltanto qualche patata e niente di più. Si sa, con qualche patata non si sopravvive, non si compra da mangiare a sufficienza per ogni giorno, né ci sono i soldi per andar in città, togliersi qualche sfizio, comprare un vestito nuovo e operarsi alle ginocchia.
La storia di Emilia è una fra tante, e lei come molti rientra in quel gruppo di persone che non hanno garantita una sicurezza alimentare.
La sicurezza alimentare è definita dalla FAO come la possibilità di "assicurare a tutte le persone e in ogni momento una quantità di cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare le loro esigenze dietetiche e le preferenze alimentari per una vita attiva e sana", e questo in Europa è un diritto acquisito, certo ed inviolabile.
In un Paese in via di sviluppo come la Bolivia, invece, in cui si assiste all'abbandono delle campagne, in cui le città non posseggono le strutture adeguate ad accogliere la migrazione dalle zone rurali, in cui un pranzo costa 2 euro e fare la spesa per preparalo ne costa 3, non è possibile parlare di sicurezza alimentare.
Interessante è andare al supermercato che ha prezzi europei e trovare prodotti con etichette incomplete, con additivi e coloranti vietati in Europa. La mancanza di regolamentazioni in merito è evidente e un gap legislativo di questa portata costituisce un danno per la salute della gente.
È in questo quadro che si inserisce il lavoro di molte ONG che operano in Bolivia. Fundaciòn Sartawi Sayaryi, con il sostegno e la collaborazione di CVCS dal 2005 ad oggi, opera in particolar modo per fortificare il potenziale dei campesinos, i contadini boliviani, supportandoli nel creare sistemi di irrigazione, migliorare la qualità e la quantità del bestiame e delle sue produzioni, indirizzando i produttori a una agricoltura sostenibile e biologica nel totale rispetto dell'ambiente, per migliorare la commercializzazione e la trasparenza per il consumatore, grazie alla partecipazione a fiere sparse per tutto il dipartimento di La Paz e mettendo a disposizione nella propria sede uno spazio di vendita per i campesinos.
Biologico non significa migliore ma indica che considera tutto l'ecosistema, favorendo la biodiversità e la naturale fertilità del suolo e che esclude dal processo prodotti chimici e organismi geneticamente modificati.
Cosa c'è di più bello dell'ottenere sicurezza alimentare tramite una agricoltura sostenibile in cui i beneficiari siano sia il produttore che il consumatore?
Emilia anche se non ha niente è felice, ride e divide con le sue amiche il suo pranzo (patate, pomodori e un pezzetto di pollo) e brindano insieme con una bevanda dolce che conservano per le occasioni speciali.
Nicolò Villa

DONAZIONI
- c/c banca Credito Cooperativo Cassa Rurale di Lucinico, Farra e Capriva
- IBAN IT23 M086 2212 4010 0400 0060 012
- Intestato a CVCS – Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo
- Causale “Progetto Quinoa bio Bolivia”
- www.cvcs.it

Haiti, il riso fa...buon sangue

«Coltivo la terra da quando ero bambino, un mestiere che ho ereditato da mio padre e dal padre di mio padre… Lavoravamo duramente, riuscendo a malapena a mangiare una volta al giorno. Siamo andati avanti così per anni, senza immaginare che si potesse vivere in un altro modo, e che la povertà potesse venir sconfitta», racconta Sonson, 49 anni, abitante di Bocozelle nella valle dell’Artibonite, 120 km a nord di Port-au-Prince, la capitale di Haiti.
Il Paese è divenuto tristemente “famoso” da quando, nel 2010, il terremoto ha mietuto 220.000 vittime e provocato danni per 14 miliardi di dollari. Oltre a questo, due uragani scoppiati nel 2012 hanno contribuito a distruggere l’intera produzione agricola, in particolare quella di riso, il piatto base dell’alimentazione locale. «A peggiorare la situazione, la concorrenza del riso statunitense favorito da una politica doganale che ha costretto l’ex presidente Aristide ad abbassare i dazi su questo cereale dal 22 al 3%», spiega Andrea Fabiani, che per tre anni ha lavorato ad Haiti per conto dell’associazione torinese CISV.
«Oggi il riso locale costa 900 gourde haitiani (circa 15 euro) al quintale, contro gli appena 400 gourde di quello importato dagli Stati Uniti. E per le famiglie povere - che vivono con 40 centesimi di euro al giorno a persona, e che costituiscono il 50% della popolazione - è più conveniente acquistare il riso straniero a scapito della produzione locale».
L’altro paradosso è che, senza importazioni, la produzione interna non basta a soddisfare i bisogni locali. «Per liberarsi dall’import e dagli aiuti esterni occorre perciò rilanciare e raddoppiare la produzione» dice Andrea. Un’utopia?
«Qui a Bocozelle, dove siamo attualmente 48.000 abitanti, siamo riusciti a raddoppiare la produzione di riso da 2,5 a 5 tonnellate per ettaro, nel giro di pochi mesi», racconta Sonson, membro della federazione Ojl 5 (“Occhi aperti” in creolo) con cui CISV collabora e che riunisce oltre 50 organizzazioni contadine.
«All’inizio non è stato tutto rose e fiori», spiega Andrea, «perché i risicoltori erano restii a modificare i metodi di lavoro tradizionali».
Adesso veniva loro richiesto di unire le proprie (piccole) parcelle di terra in un unico appezzamento, più facile e redditizio da lavorare; di seguire specifici corsi per migliorare le tecniche di coltivazione e gestione; e di utilizzare un nuovo sistema di credito in natura per ricevere concime e sementi in prestito dalla RACPABA (rete di associazioni e cooperative agricole dell’Artibonite), dando parte del riso prodotto come “restituzione” al termine del raccolto.
«Tutte queste novità all’inizio andavano ‘digerite’, perciò siamo partiti con una piccola sperimentazione su 4 ettari di terreno», racconta Andrea.
«Ma fin dal primo raccolto si sono ottenute rese di 5-6 tonnellate per ettaro, e questo ha convinto i contadini a proseguire, arrivando in poco tempo a 30 ettari di risaie coltivate». Un successo, conferma Antò, anche lui risicoltore di Bocozelle: «Avevo preso in affitto un lotto di terreno per coltivarlo, ma quando il proprietario ha visto che il suo vecchio appezzamento poteva produrre fino a 6 tonnellate di riso di buona qualità, ha subito voluto indietro la terra per coltivarsela da sé!».
Adesso CISV e i contadini dell’Artibonite sono arrivati a mettere a coltura 100 ettari di risaie, a beneficio di 1.600 famiglie. «Abbiamo iniziato a lavorare e a vivere meglio», dice Sonson. «E’ più facile procurarsi i mezzi che ci servono per il nostro lavoro (concime, sementi…), riusciamo a dare da mangiare regolarmente ai nostri bambini, e molti nei villaggi hanno iniziato a mandare i figli a scuola».
Molto però resta da fare: «Spesso manca l’acqua per irrigare, costruire canali è costoso e per bere si usa spesso l’acqua del fiume, ma fa male alla salute». «Occorre sviluppare ancora di più l’agricoltura» dice Andrea, «che è la base dell’alimentazione e dell’economia. Ed è l’unica via per aiutare gli haitiani a camminare di nuovo sulle proprie gambe, liberandosi dalla dipendenza dall’estero».
Stefania Garini, Cisv

DONAZIONI SU
- cc bancario Banca Etica IBAN IT25 K 05018 01000 000000110668
- on line su www.cisvto.org
intestati a CISV - causale HAITI
http://www.cisvto.org/paesi/haiti

venerdì 11 dicembre 2015

Congo, un orto per la scuola

«Da tre anni qui a Nyangezi sta cambiando tutto. Molti ragazzi, che altrimenti avrebbero abbandonato la scuola, continuano a studiare. E anche io ho più speranza riguardo al mio e al nostro futuro». Frère Charles è il direttore dell'Istituto Weza di Nyangezi, nella provincia del Sud Kivu della Repubblica Democratica del Congo. Da anni segue l'istituto, insieme agli altri confratelli Maristi. Ed è lui che dice che da quando Amici dei Popoli è intervenuto con il suo progetto “Per un'istruzione di qualità” c’è stato un lento ma consistente miglioramento della situazione.
Il Sud Kivu è una delle province in cui la popolazione risulta tra le meno istruite della RDC. Tanti bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni non riescono a frequentare la scuola dell'obbligo. Molti abbandonano la scuola, il tasso di bocciature è alto e molti sono gli ingressi tardivi. Coloro che non entrano a scuola o che non completano i loro studi primari sono figli soprattutto di famiglie povere, e bambini che provengono dalle campagne. La zona di Nyangezi ha convissuto, e convive da molto tempo, con una situazione di grave insicurezza e qui le famiglie sono state spesso attaccate dai ribelli. Molti sono stati uccisi e tantissimi bambini sono oggi orfani, traumatizzati dagli effetti della guerra.
«C'è una grande carenza di insegnanti formati», continua Frère Charles. «Quelli che lavorano si sentono isolati e demoralizzati, e l’esiguità dei salari pagati dallo Stato – nonché la loro irregolarità – li demotiva. In più, da ormai due decenni non esiste un sistema di formazione permanente per i docenti e la maggior parte non ha alcun accesso a risorse pedagogiche».
Per questo Amici dei Popoli, in collaborazione con la congregazione dei Fratelli Maristi, ha avviato nel 2010 il progetto “Per un'istruzione di qualità” con l’obiettivo di rafforzare i servizi di Scuola Primaria e di reinserimento scolastico per i bambini vulnerabili.
Le attività sono molteplici: innanzitutto un corso di formazione per insegnanti che ha coinvolto oltre 180 docenti provenienti da 24 scuole del territorio. I temi riguardavano la pedagogia evolutiva, l'educazione nutrizionale, la sessualità, i diritti umani e dell’infanzia, il lavoro d'equipe, il rispetto dell’ambiente. Gli insegnanti hanno poi costituito una rete chiamata “Gruppo di risparmio e di credito” con il quale stanziano parte del loro stipendio per costituire un fondo con cui finanziare piccole attività generatrici di reddito.
E poi c’è l’orto: un orto-giardino creato all'interno della scuola. Uno spazio molto grande in cui vengono coltivate cipolle rosse, porri, cavoli, amaranto, melanzane, mais, fagioli, patate dolci, manioca, fagiolini e spinaci che vengono utilizzati per l’alimentazione dei ragazzi dell’internato, vengono distribuiti ai bambini vulnerabili della scuola primaria e in parte vengono venduti sul mercato locale per aiutare l’autofinanziamento della scuola e delle altre attività. Due agronomi seguono i lavori e mettono a disposizione le loro competenze per la riuscita delle coltivazioni, ma offrono anche importanti consigli ai genitori, che così sono in grado di migliorare anche la coltivazione dei propri orti domestici. La carica innovativa e creativa di questo progetto è che i genitori che non hanno possibilità di pagare le tasse scolastiche per i propri figli possono offrire ore di lavoro nell’orto-giardino. In cambio la scuola si prende in carico le spese di frequenza scolastica. I risultati sono evidenti: «I genitori si sentono valorizzati e sono contenti di mettere a disposizione il loro lavoro ricevendo in cambio la possibilità per i propri figli di accedere al percorso scolastico».
Tutte queste iniziative hanno fatto sì che la riuscita scolastica del distretto sia notevolmente aumentata e i risultati dell'esame nazionale delle scuole coinvolte sono stati quasi tutti positivi.
Quella dell’Istituto Weza è l'esempio di come mettersi insieme, sostenersi reciprocamente e provare nuovi espedienti creativi che uniscono ambiti differenti – come ad esempio l'orticultura e l'istruzione – possano permettere il miglioramento delle condizioni di vita anche in contesti di disgregazione dello stato sociale e di crisi profonda come quello di questa sofferente provincia della Repubblica Democratica del Congo.
Enrico Campagni e Morena Lorenzi


DONAZIONI
- c/c bancario BANCA ETICA BOLOGNA - IBAN IT 22 W 05018 02400 000000112493
- c/c postale 15411408
Intestati a: AMICI DEI POPOLI ONG Causale RDC - NYANGEZI istruzione

venerdì 27 novembre 2015

Burkina Faso, la voglia di cambiare

Ultimo fine settimana prima del giorno della verità in Burkina Faso. Il 29 novembre si elegge il nuovo Presidente della Repubblica e il fallito colpo di stato dello scorso 17 settembre sembra avere motivato ancora di più i cittadini nella costruzione del destino del loro Paese.
Girando in queste ore per le strade della cittadina di Dano, mi impressiona la quantità infinita di manifesti elettorali appesi negli uffici, nei bar e persino agli alberi di mango. Anche le più semplici e piccole abitazioni con il tetto in paglia hanno appesi almeno una foto dei candidati o un manifesto elettorale. Curiosa di sapere se si tratti di senso civico vero o presunto, mi dirigo verso il grand marché, alla ricerca di testimonianze da raccogliere.
Entrando nel mercato, il mio sguardo viene subito catturato da una vecchia macchina da cucire all'interno di una bottega su cui è incollata una foto sbiadita di Thomas Sankara, il rivoluzionario che tutti definiscono il “Che Guevara burkinabè”, ucciso da odiosi complotti orditi dall'ex dittatore Blaise Compaoré.
Così mi siedo a bere un tè con il proprietario della sartoria che, senza perdere di vista la precisione del suo cucito, mi ammonisce: “Dopo il colpo di stato del 17 settembre abbiamo capito tutto. E oggi non ci bastono più le parole, vogliamo fatti concreti”.
Ciò nonostante il sarto non sa dirmi chi secondo lui vincerà la sfida. Ma suo figlio è invece molto preparato: Nasef ha appena 12 anni ma mi illustra tutte le posizioni dei vari candidati. Mi dice che sebbene non possa votare, ha una sua idea ben precisa e che non è per niente d'accordo sul candidato che voterà suo padre!
Nasef frequenta il colège e gli piace molto studiare. A bassa voce, senza farsi sentire da suo papà, mi dice che il suo dovere è essere un bravo studente perché, in Burkina Faso, gli studenti bravi vengono mandati a studiare all'estero, e quando tornano sono capitale umano per il Paese. Il sogno di Nasef sono gli Stati Uniti, “il paese migliore al mondo”, dice.
Tornando verso casa noto che la mia giovane vicina ha indosso la maglietta del Balai Citoyen, un movimento politico fondato dal musicista reggae Sams’K Le Jah e dal rapper-attore Serge Bambara nel 2013. Si tratta di un movimento di ispirazione sankarista, e deve il suo nome alla volontà dei suoi fondatori di spazzare via dal Paese la corruzione politica (ispirandosi anche al monito di Sankara di munirsi delle proprie scope come metafora della presa a carico del destino del bene pubblico).
Parlando con la ragazza scopro che in realtà sa poco della storia del Balai Citoyen ma ugualmente nella sua cucina giganteggia un manifesto elettorale di questo movimento. Le chiedo quindi cosa pensa delle elezioni delle prossima domenica e, senza lasciarsi ingannare dalla mia curiosità, mi dice che ciò che si aspetta la popolazione è “un presidente per vivere in pace. Una persona seria –mi spiega- che prenda il potere e che sappia dirigere al meglio il Paese”.
Si fa sera, e davanti a una brakina, la birra burkinabè, un collega mi confessa che non ha più tanta voglia di parlare di politica perché ha sentito troppe promesse e troppe parole gridate al vento. Mi dice però che è sicuro che questa volta qualcosa cambierà veramente perché, “se non cambierà”, “saranno gli stessi cittadini a cacciare ancora una volta il presidente!”. Mi racconta che il Burkina non farà mail la guerra perché sul Paese regna l'anima di Sankara che si è fatto uccidere per il suo popolo e che sempre veglierà sulla sua terra, cacciando i potenti e i malvagi corrotti.
Nei pressi del municipio di Dano stasera c'è un concerto gratuito di supporto a uno dei candidati. Rimango stupita dalla moltitudine di persone che è accorsa per manifestare il sostegno al proprio candidato. Ci sono bambini scalzi, donne incinte, padri di famiglia. I musicisti, prima di esibirsi, spendono qualche parola sull’appuntamento elettorale e la popolazione sembra davvero interessata a capire, informarsi, rendersi partecipe di un cambiamento. Tutti sono qui a reclamare una dignità che troppe volte è mancata al popolo del Burkina.
L'aria profuma davvero di cambiamento vero, che nasce dal basso, dalla polvere.

Elisa Chiara
Casco Bianco Burkina Faso
ProgettoMondo Mlal

martedì 10 novembre 2015

Studenti nel buio della sala e dell'Africa

Se foste ancora dei giovani studenti delle Superiori, se vi capitasse di andare a vedere un film africano con la vostra scuola, cosa vi aspettereste?
Certo, il Festival del Cinema Africano a Verona è un’ottima occasione per perdere lezione, quindi per molti di loro magari è già una motivazione valida… e uno; ma a qualcun altro balenerà senz’altro nella testa: “ma che razza di film stiamo andando a vedere? Sarà una sottospecie di documentario o una cosa stramba tutta loro… Se no per quale motivo il prof mi porterebbe a vedere un film… africano?!?”
Sabato e lunedì mattina alle 9 e mezza questi ragazzi delle superiori, con più o meno queste domande, erano nella sala del Cinema-Teatro dello Stimate.
Io, volontario in Servizio civile con l'Ong ProgettoMondo Mlal, ero in galleria a svolgere il compito di tecnico-proiezionista, e mi immedesimavo in loro, sia mentre scorrevano le immagini del film Timbuktu di sabato, sia con Certified Halal di lunedì, e ci sono riuscito!
Timbuktu non è piaciuto molto. Sebbene il tema della Jihad fosse di grande attualità, ritmo e significati reconditi, hanno reso un po’ ostico il film ai ragazzi. Un film drammatico, nel quale si tratta dell’avvento della Jihad in Mali, nella città da cui poi prende il titolo il film.  Siamo in Mali e, all’inizio la Jihad appare come una dittatura all’acqua di rose in cui, gli stessi facenti parte dell’organizzazione, si muovono con imbarazzo nelle stesse regole che proprio loro impongono ai cittadini, ma non sarà così per tutto il film. Alla fine la Jihad si imporrà con durezza nel Paese. Nella trama e presentazione dei personaggi, il lungometraggio procede lentamente e con molte metafore di difficile interpretazione, eppure importanti per la comprensione del finale che dunque risulta sbrigativo.
Gran successo ha avuto invece Certified Halal che, nelle votazioni, ottiene anche il consenso dei giovani giudici. Il film è una commedia che tratta il tema della verginità in Algeria, con molta ironia e irriverenza, con un’esagerazione del cliché del “matrimonio combinato” e delle tradizioni di oggigiorno; il tutto, anche la casualità e lo scontro che danno inizio all’avventura per le famiglie delle due promesse spose, si svolge attraverso viaggi  che si possono riassumere in un unico grande viaggio che non finisce neanche al termine della “pellicola”.
Se foste quei ragazzi che in questi giorni erano in sala, avreste reagito anche voi allo  stesso modo? Non ci pensate troppo e venite a provare un film presentato al Festival. La settimana, così come questo bellissimo evento di Cinema Africano, sono solo all’inizio e, potersi immedesimare (non solo negli studenti, ma anche nei personaggi del grande schermo), ha appena il prezzo di un biglietto per il cinema.

Sandro Castaldelli
Casco Bianco Verona
ProgettoMondo Mlal

venerdì 6 novembre 2015

La comunita si cura da sé

"Se hai 3 dollari a disposizione per un progetto di salute, investine 2 due nella prevenzione". Sono queste le parole che mi erano state ripetute più volte nel corso della formazione organizzata da ProgettoMondo Mlal prima della partenza, e ora mi accorgo che sono le parole che stanno scandendo le mie prime attività qui a Dano, in Burkina Faso.
Capisco così che non è affatto secondario che il progetto di salute comunitaria, “Sentieri della Salute”, a cui collaborerò in quest’anno di servizio civile, punti soprattutto sulla promozione di una relazione diretta e quotidiana fra l’operatore del servizio sanitario e la popolazione locale, ovvero con gli abitanti dei villaggi rurali. Infatti è proprio su questo primo obiettivo che si concentrano le iniziative di formazione promosse dall’equipe di ProgettoMondo Mlal nei singoli Centri di Salute (Centre de Santé et de Promotion Sociale) rivolte ai promotori di salute (agents de santé). A loro, che saranno chiamati a rapportarsi direttamente con la gente più semplice, viene insegnato prima di tutto a come creare un rapporto di fiducia e di collaborazione con i loro potenziali pazienti: le mamme, le famiglie, gli anziani, i bambini.
La necessità di una reale reciprocità di relazione, in questo caso, va ben oltre l’auspicata interazione paziente-dottore cui siamo abituati noi in Italia: non si tratta infatti di migliorare tanto la qualità del rapporto tra malato e operatore sanitario quanto il potere raccogliere direttamente in seno alla comunità notizie utili su cui poi costruire un adeguato programma di sensibilizzazione, perché la popolazione si senta coinvolta, si accosti con fiducia, partecipazione e interesse al tema della salute. Ancor prima cioè che l’eventuale malattia possa essere acclarata e curata, si riuscirà ad investire sulla prevenzione.
Nell’ambito ad esempio della lotta alla malnutrizione infantile, il progetto ha concreto bisogno del coinvolgimento preliminare della comunità, grazie anche alla creazione di gruppi di educatori nutrizionali che potranno formarsi proprio in base alle esperienze e le storie che esprimerà la popolazione.
In questo modo anche la singola persona del villaggio, prima ancora di rappresentare un potenziale malato, sarà un’indispensabile fonte di informazioni e quindi un prezioso testimonial. Una mamma racconterà per esempio agli animatori quali tabù culturali le impediscono di osservare un determinato comportamento (come quello dell’allattamento al seno). Cosicché, da quel momento, con l'aiuto dei mediatori, lei stessa conoscerà con maggiore facilità l'importanza delle buone pratiche di igiene, di lavarsi le mani e di mantenere pulito l'ambiente famigliare. Quella stessa mamma poi trasmetterà quanto ha appreso ad altre mamme, che la diffonderanno in tutta la comunità, creando una nuova consapevolezza.
Il punto focale dell’idea di cambiamento sta quindi nella capacità o meno di raccogliere, trasmettere e diffondere informazioni, fiducia, sapere, perché soltanto così queste diventeranno patrimonio comune della popolazione e dunque attivare nuovi comportamenti.
Anche nella trasmissione e diffusione delle nuove conoscenze in questo progetto si sta attenti a seguire una logica orizzontale: mai informazioni calate dall’alto o imposte alla popolazione ma, al contrario, conoscenze inserite molto concretamente nel quotidiano, veicolate nel corso di visite al villaggio o mescolate alle chiacchiere tra gli abitanti. L'infermiere  e gli animatori del progetto “Sentieri della salute” si trasformano insomma in accompagnatori, che trasmettono conoscenza su buone pratiche quotidiane, sull'importanza della valutazione degli errori comuni che possono compromettere la salute materna e di riflesso quella infantile.
In questa mia prima esperienza, rispetto all’attività di formazione, mi ha soprattutto colpito la precisione con cui innanzitutto viene trasmesso il corretto comportamento quotidiano da seguire all’interno del proprio ambiente famigliare. Mi riferisco a standard che per noi occidentali potrebbero apparire ovvi, ma che nei villaggi più isolati difficilmente conoscono.
Gli incontri a cui ho partecipato approfondivano ad esempio l'importanza della diversificazione alimentare, nonché l'essenzialità di una dieta equilibrata, sana, tarata su misura della specificità famigliare. Si è dedicata notevole attenzione anche alla reperibilità dei prodotti, e quindi all'importanza di sostituire l’eventuale alimento non disponibile con equivalenti più accessibili, magari provenienti dall'orto comunitario, ad un passo quindi dal focolare domestico.
Sono rimasta infine particolarmente colpita dal senso di coesione del personale sanitario, dalla loro fermezza nel combattere l'ignoranza che spesso colpisce le comunità di contadini e allevatori burkinabé.
Il sentiero da percorrere è ancora lungo, ma si intuisce bene come qui si stiano costruendo le basi di un nuovo processo di crescita comunitaria e di inclusione sociale in cui il fine ultimo è il benessere delle generazioni future.
 Elisa Chiara
Casco Bianco Burkina Faso
ProgettoMondo Mlal

martedì 3 novembre 2015

Burkina Faso: Una nuova quotidianità

Se c'è un luogo in cui i burkinabè amano passare il loro tempo, questo è di sicuro il maquis. Definirlo un piccolo bar sarebbe troppo riduttivo, perché il maquis è qualcosa di estremamente nuovo rispetto alla nostra concezione di bar o luogo di ritrovo.
Si presenta assolutamente essenziale: una tettoia, un frigorifero, qualche tavolino e sedie sparse qui e là ma che, all'arrivo dei primi clienti, si trasforma in un ambiente amichevole e frizzante.
Si va al maquis non solo per refrigerarsi nelle calde giornate, ma soprattutto per partecipare a discussioni su varie tematiche: dalla politica alle questioni familiari. Qui si parla di tutto e, cosa straordinaria, si può scherzare liberamente, prendersi in giro anche rispetto alle differenti appartenenze etniche.
In Burkina Faso ci sono circa 60 etnie diverse e una vasta lista di differenti lingue parlate, ovunque vale una regola base: nessuno si deve offendere e tutti possono scherzare liberamente. Questo crea un bellissimo equilibrio nel popolo burkinabè, oltre che garantire una grande libertà di espressione.
Sono arrivata da meno di due settimane a Bobo Dioulasso, la seconda città del Burkina Faso, e non ho di sicuro perso tempo nel farmi affascinare da questa nuova cultura.
Ogni giorno per me è una nuova scoperta, e pare che ci siano ancora molte cose ancora da conoscere.
Come dicevo, al maquis, non solo si passa a fine di una lunga giornata di lavoro per bere qualcosa di fresco e fare due chiacchiere con gli amici, no. Diventa un luogo di fiducia, in cui sai che puoi incontrare qualcuno per fare amicizia, condividere insieme una bevanda e, perché no, una cena improvvisata al momento.
Basta decidere cosa mangiare, salire sullo scooter e ci si imbatte subito in mille simpatici ristorantini “take away”. Dotati di specifici forni, la carne cuoce all'interno di un grande contenitore, sei tu stesso con un grande forchettone a scegliere il pezzo che poi verrà accuratamente tagliato in bocconcini succulenti conditi con salse e verdure a piacimento. Il tutto viene incartocciato ed è subito pronto per l'asporto. Ed ecco che troviamo un piatto caldo al centro del tavolo, non c'è nemmeno bisogno di esitare, è d'obbligo condividere con gli altri e degustare assieme un'ottima cenetta ovviamente dopo essersi lavati bene le mani e aver ordinato una nuova brakina, la birra del Burkina.
Sono passati solo pochi giorni dal mio arrivo e fin da subito mi sono sentita accolta in una grande famiglia. Quello che mi ha colpito è di sicuro la grande disponibilità della gente.
La casa in cui vivo, dista pochi minuti a piedi dall'ufficio di ProgettoMondo Mlal, ma il pomeriggio le mie attività si concentrano nell'aiutare nella gestione di un Centro di formazione giovanile che, invece, è più lontano... circa 40 minuti di cammino.
In realtà non sono ancora mai riuscita ad arrivarci a piedi visto che, ogni volta, si è fermato qualcuno per offrirmi un passaggio, e salgo volentieri sul mezzo di trasporto più amato da queste parti, lo scooter!
Moto, scooter, biciclette e macchine fumanti, sfrecciano lungo la strada che mi porta al Centro. Poi, piano piano, l'asfalto scompare ed è la terra rossa a segnare il tragitto. Sembra quasi di essere lontanissimi dalla città, l'ambiente è più aperto, piccole casette di mattoni rossi, bambini che corrono e giocano ovunque e là, in fondo, sorge il Centre Jigi Seme.
Nato nel 2003, con il sostegno delle Missionarie dell'Immacolata Regina della Pace, grazie all'appoggio del CVCS negli ultimi anni ha potuto ampliare la sua struttura e mantenere una buona dotazione di strumenti che servono ai giovani per poter studiare in un ambiente sereno, fare ricerche e poter imparare ad usare il computer, leggere e prendere in prestito libri scolastici dalla biblioteca.
Qui le giornate scorrono veloci, tra corsi di formazione, analisi dei bisogni, pianificazione, programma di attività e senza farci mancare nemmeno l'analisi dei problemi. Il tutto fatto insieme ai ragazzi che, da appena due mesi, si sono trovati ad essere i protagonisti del nuovo Comitato di gestione del Centro.
Così all'imbrunire mi dirigo verso casa, le luci si accendono e si ritorna sulle strade in fibrillazione. I banchetti di frutta e verdura sono ancora là, in attesa degli ultimi clienti e già si sentono i profumi dei ristorantini che iniziano ad aprire i loro forni, a preparare i condimenti, tagliare le verdure...
Comincia così una nuova serata e da lontano vedo maquis già pronti ad essere animati!

Wendy Denise Lenarduzzi
Cvcs-ProgettoMondo Mlal
Burkina Faso

venerdì 11 settembre 2015

Un sorriso grande tra pioggia e fango

La mia nuova vita rurale comporta una serie di attività campestri, tra cui l’approvvigionamento di letame per il mio orto. Una ricerca non semplice a Dano, dove rarissimi sono i grandi allevamenti, e spesso si usa per concimare i resti del miglio o del sorgo, i cereali usati per fabbricare la birra locale, il “dolo”. Il mio guardiano/ortolano/tuttofare, Bienvenu, (Benvenuto) mi segnala che un Pastore (di chiesa protestante) vende il mitico e vero letame “animale”. Approfitto della pausa pranzo per caricare la carriola in macchina e fiondarmi ad acquistarlo. Scendo dal 4X4 d’ordinanza e affondo fino a metà polpaccio nel prezioso concime: poco male, c’è subito qualcuno pronto ad aiutarmi a ripulire la scarpa incriminata.
Nel frattempo un acquazzone violentissimo mi costringe a cercare riparo sotto il tetto di una chiesa protestante. Ed è in quel momento che, incurante della pioggia scrosciante, una bambina sorridente mi viene incontro di corsa nel mio “rifugio provvisorio” e mi porge emozionata la mano… Non do troppa importanza al gesto, lì dove sono, con i piedi bagnati, calzino e pantaloni aromatizzati al letame. Ma poi, tornando in ufficio, ci ripenso. Sono quei piccoli gesti spontanei, espressione di interesse, curiosità, amicizia disinteressata, che nella nostra realtà italiana abbiamo completamente perduto. E che, anche qui in Burkina Faso, per un cooperante “di città e ufficio”, potrebbero non accadere mai, o semplicemente non condizionare minimamente il mio tran tran fatto di fogli Excel, rapporti, schede di monitoraggio, e-mail, organigrammi. Ma questa volta il grande sorriso gratuito della bambina, l’aver sfidato pioggia e fango soltanto per toccarmi, per entrare in relazione con me… mi emoziona, mi rimette al mondo. Mi riporta insomma dritto al vero motivo per cui oggi sono qui: la mia continua sete di conoscenza, la mia curiosità e il bisogno di mettermi in gioco, il desiderio di entrare in contatto diretto con l’altro e con realtà così diverse da quelle a cui sono abituato, vite così dure e materialmente molto povere ma che mi stanno dando molto.
A distanza di oltre tre mesi dal mio arrivo, devo dire che non è sempre semplice vivere da queste parti. Sto sperimentando vari malanni: prima la malaria, poi disturbi gastrointestinali, dovuti molto probabilmente a parassiti contratti usando (non bevendo) l’acqua del pozzo in giardino. Vivo in una spartana casa di campagna. Non c’è né acqua corrente, né elettricità. Il primo bisogno si risolve semplicemente aggiungendo pastiglie di cloro all’acqua del pozzo, non ci sono rubinetti ma pentole, gusci di zucche, bicchieri, per versarsi l’acqua. Per ovviare al secondo bisogno, ho contrattato un ingegnere del Benin, che mi ha fatto un impianto elettrico con i pannelli solari. Malgrado alcuni ritocchi (a distanza di oltre un mese non riesco ad usare il frigo per un problema al convertitore), ho la luce in casa e, quando non piove eccessivamente, funzionano anche le prese. Mi piace la mia vita a basso impatto ambientale. Dopo l’orto, Bienvenu mi ha costruito il pollaio, e domenica ho preso quattro polli: un gallo e tre galline. Una vita di campagna, quindi, con un lavoro che però rimane di città.
Tra gli aspetti più belli di questa esperienza professionale, senza dubbio il fatto che mi permette di conoscere questo Paese. Entro in contatto con tanta gente, tantissime realtà: il Burkina-bene, delle autorità amministrative e sanitarie con cui collaboriamo, il Burkina semi-urbano di Bobo-Dioulasso, la città burkinabé dove si vive bene, a detta di tutti, (e a ragione, rispetto all’invivibile capitale), il Burkina dei miei colleghi, Il Burkina contadino di Dano, dove tutti, ma proprio tutti, ne sanno di agricoltura e allevamento: ma devo dire che in questi settori i burkinabé sono forti, sia i cittadini, sia i campagnoli. Tanti Burkina Faso. C’è un Burkina assistenziale che si aspetta la manna dal cielo dalle istituzioni straniere, o dal bianco di turno, e che spesso non si tratta di poveri, ma di persone che occupano posti di rilievo. Mi è capitato, durante un seminario, che un’autorità amministrativa si lamentasse dei nostri tassi di per diem, troppo bassi, non in linea con quelli che elargisce lo Stato… e dire che io ero già allibito dal solo fatto di dover “pagare”, oltre a prevedere pause caffe, pasti e rimborsi chilometrici, i partecipanti a un seminario di presentazione del progetto! Ed è iniziata la negoziazione, tra un boccone di riso al pesce e un sorso d’acqua in sacchetto di plastica…”.
Il Burkina che fa sentire più a mio agio, è il Paese delle persone semplici, sorridenti, che ti salutano e appena possono ti danno la mano, adulti o bambini, uomini e donne. C’è un Burkina che corre dietro, un po’ goffamente a modelli stranieri, visti come “giusti”, da seguire, che si riempie la bocca di parole come “sviluppo”, “progresso”, “modernità”, “civilizzazione”, in continuo confronto con i modelli dei Paesi “ricchi”. Perché poi? Lo sviluppo deve per forza passare per l’emulazione dei modelli dei Paesi occidentali? Mi fa pensare il fatto che non esista una traduzione precisa del termine “sviluppo” in molte lingue locali… perché questo continuo confrontarsi? Viviamo realtà molto diverse. Diverse, ma non abbiamo modelli da imporre. O forse sì? Lo credono quegli stessi burkinabé, che riproducono e anelano alle vite dei bianchi/occidentali, vincitori dello scontro tra civiltà?
Io dal mio villaggione di Dano, tabulati di Excel permettendo, osservo e cerco di riflettere. Di tenere a mente quali sono le motivazioni che mi hanno spinto fin qui. Di non perdere la bussola. Di rendere il miglior servizio possibile a questo mondo che, fin da quando sono adolescente con la presunzione che mi ha sempre caratterizzato, voglio contribuire a cambiare “in meglio”.

Cristiano Bassanini
ProgettoMondo Mlal Burkina Faso

giovedì 3 settembre 2015

La domenica di Haiti

È domenica, non c’è neanche una nuvola. Il cielo è azzurro Caraibi. Caldo. Arriva l’acqua, faccio il bucato, riempio secchi e bidoni, e mi preparo per andare a messa. I cinque minuti di passeggiata fino alla chiesa sono sufficienti per arrivare fradicio di sudore e attirare i risolini dei presenti. Sì perché, la domenica mattina a messa, gli abitanti di Papaye sono impeccabili. È giorno di festa e lo si vede anche dall’abbigliamento curato, pulito, stirato, scarpa in pelle per l’uomo, tacco per la donna, volant di tulle, treccine e perline multicolori per le bambine.
A quest’ora, chi non è già in chiesa è intento a lavare i panni, la moto e a fare le pulizie di casa. Nel mio tragitto verso la chiesa, noto che la famiglia Monerot si è divisa equamente i compiti: gli uomini si occuperanno della casa e le donne possono andare a messa. La nonna guida la delegazione composta da Ketoun, fresca di maturità, Laura, Lenski e Mikerly. Laura e Mikerly, le due bimbe, portano un vestitino rosa bonbon improponibile dalle nostre parti, ma quanto mai bello da queste.
Bisogna fare presto perché è d’obbligo essere in chiesa prima dell’arrivo del prete (che viene dalla cittadina di Hinche) e d’altra parte c’è solo una messa, questa messa. Nonostante questa sia considerata una parrocchia, non c’è una sagrestia. Così, al di fuori delle celebrazioni, il corpo di Cristo viene ospitato nella cappella della Casa dei Petits frères Sainte Therèse.
Oggi il compito di animare la messa tocca al gruppo Kiro, un movimento giovanile ispirato a San Paolo molto attivo soprattutto nel nord Europa e in Africa. Il jazz, come lo chiamano in creolo, è essenziale per far vivere bene la celebrazione e oggi siamo al completo: tamburo, maracas, gratwa, bambo soffiato e percosso. Nelle occasioni speciali, in realtà, vengono aggiunti anche strumenti elettrici come il basso e la chitarra, ma oggi è un giorno qualsiasi e la corrente non c’è, come nelle altre 48 domeniche dell’anno. In compenso, ormai da qualche mese, c’è il microfono, una sorta di karaoke a batterie che, a ogni parola o suono amplificato, cambia colore, giallo, verde, blu. A noi fa sorridere, improponibile dalle nostre parti ma quanto mai bello da queste.
Questa mattina oltre a père Allens, il parroco, c’è père Delacruz, responsabile dell’ufficio OPM in Haiti che con cipiglio deciso celebra la messa. L’omelia è interattiva, prevede scambi di opinioni e interrogazione finale ai fedeli presenti. Il celebrante è il primo a battere le mani a tempo durante il canto del Santo, a muoversi a ritmo di musica al termine della consacrazione, ad improvvisare una benedizione comunitaria dopo avere diligentemente citato tutti coloro che in settimana hanno festeggiato i propri compleanni. A suo tempo, anche noi tre (io, mia moglie e la piccola Marta) siamo stati benedetti in questa chiesa e questo ci ha fatto sentire parte e figli della comunità. Improponibile dalle nostre parti, ma quanto mai bello da queste.
Mi ha sempre affascinato, e particolarmente coinvolto, l’aspetto socioculturale e religioso della messa della domenica ad Haiti. Qui la fede e la cultura locale si mescolano, si integrano, sembrano dialogare e rispettarsi. In questo piccolo villaggio, dove siamo presenti come ProgettoMondo Mlal, mi pare tutto più vivo e, parallelamente, che tanto ancora si può costruire, a partire dal concetto stesso di famiglia: spesso infatti siamo l’unica famiglia che seduta nello stesso banco assiste alle celebrazioni. In compenso, liturgicamente parlando, mi sento più partecipe di quello che succede durante la funzione rispetto a ciò che viene celebrato e del motivo perché io sono in chiesa. Il momento più ricco e toccante resta naturalmente la Comunione che, ad Haiti, si fa con pane e vino, corpo e sangue di Cristo, come credo debba essere. Perché è improponibile dalle nostre parti?

Michele Magon
ProgettoMondo Mlal Haiti

martedì 1 settembre 2015

Nada ha cambiato, todo ha cambiado

Sono rientrati dalla Bolivia i 5 studenti dell'Istituto Commerciale Piovene di Vicenza (Yasmin Bachtri, Hitta Rattnia, Giulia Grandinetti, Bragian Maldonado, Davide Pontarin) e lo studente della facoltà di fisica dell'Università di Padova (Luca Biasiolo).
Sono stati 24 giorni di viaggio, dal 21 luglio al 13 agosto, accompagnati da Ornella Zordan, la loro ex insegnante di spagnolo e da Gianni Cappellotto di ProgettoMondo Mlal.
L'idea del viaggio è nata da una serie di attività svolte durante l'anno scolastico durante le quali si sono approfonditi temi come il servizio civile internazionale, la cooperazione e il volontariato, con lezioni, visite e collegamenti skype con la Fondazione Munasim Kullakita di La Paz.
Durante il viaggio, oltre a visitare le attività di ProgettoMondo Mlal, hanno incontrato le ragazze ospiti dell'hogar gestito dalla fondazione Munasim con Riccardo Giavarini, passato una giornata a Qalauma con i ragazzi detenuti beneficiari del progetto, conosciuto Aurelio Danna e alcuni componenti dello staff del progetto Qutapiquina e sperimentato i servizi di turismo responsabile offerti da tre comunità della rete Tusoco, La Chonta nel parco Amborò, Livichuco, nella zona andina tra Challapata e Potosì, e infine ActusoL, sull'Isla del Sol nel Lago Titicaca.
Ecco una testimonianza sull’esperienza:
Siamo tornati da poco più di una settimana alla vita di sempre, i soliti posti, le faccende da sbrigare.
Mentre noi, con la nostra brama illimitata bruciavamo l’asfalto in trufi, percorrendo le strade talvolta caotiche e talvolta silenziose di questo colorato Paese, sentendoci quasi in un’altra dimensione e perdendo la concezione del tempo…, qui tutto continuava come prima seguendo il suo corso. Tanto che, rimmergendoci nella ‘vita normale’, pare quasi che, nel frattempo, niente sia cambiato. Eppure tutto è cambiato.
Semi nuovi che impercettibilmente qualcuno ha gettato stanno germogliando in qualche parte di noi, alimentati dal desiderio di tornare ed esprimere ancora la nostra gratitudine dando il nostro contributo.
Ancor più che un desiderio: una necessità.
Com’è strana la vita. Il corso delle cose, gli avvenimenti che si susseguono..
Nel nostro viaggio in Bolivia, da Santa Cruz verso La Chonta nella Selva Amazonica, da Buena Vista a Cochabamba, da Cochabamba a Livuchuco, e poi ancora verso il Salar de Uyuni, le miniere di Potosì, La Paz, El Alto e infine la straordinaria Isla del Sol.
Queste le tappe di un itinerario all’insegna del rispetto socio ambientale, fra comunità indigene, città e natura, ed esperienze che ci hanno arricchito anche a livello di conoscenza interiore, perché è così, è tutta una strada verso noi stessi.
Superati i timori iniziali sono curiosità e sete di conoscenza ad averci sopraffatti, che abbiamo soddisfatto non attraverso le pagine di libri, ma attraverso sguardi diversi, parole d’una intensità nuova, storie e persone che ci hanno infuso un coraggio prima sconosciuto ed una forza più tenace, perché cosa certa è che con una consapevolezza bisogna mettere piede in una terra nuova: via i pregiudizi, osservare con umiltà. Sapere che siamo noi gli stranieri, noi che dobbiamo imparare. Come osservare senza essere invadenti ed indiscreti?
Al principio gli sguardi che si ricevono sembrano essere talvolta di diffidenza e quasi di rifiuto (in fondo noi siamo “gringos!”).
Ma come decifrare questi occhi nuovi? Cosa c’è nel cuore di questa gente, quali sono le loro preoccupazioni? Mille domande a cui si vorrebbe subito trovare risposta.
Non bisogna avere fretta, perché l’umiltà e la pazienza vengono ripagate, e l’accoglienza ricevuta in quella terra lontana non ha prezzo.
Dal caloroso coinvolgimento ricevuto nelle comunità conosciute grazie a Red Tusoco, ai vari incontri con Don Aurelio, doña Anita, Roberto e lo staff di ProgettoMondo Mlal, che con entusiasmo e passione ci ha dato la possibilità di conoscere nello specifico progetti come quelli di Qalauma, Munasim Kullakita, Hilando Culturas o Q’utapiquiña, mettendoci in diretto contatto con gli stessi componenti delle fondazioni e comunità coinvolte, ciò che ci ha accresciuto di più è scoprire quant’è ricco il mondo di persone così, forti e positive, ottimiste e piene d’amore per la vita e per gli altri, nonostante tutto, verso un rispetto sempre maggiore per la nostra grande madre: la Pachamama.
Un viaggio, questo, intervallato da incontri unici di una potenza rara, nuovi amici che sentiamo molto più vicini di quanto la distanza fisica possa far pensare: mai dimenticheremo i ragazzi del Centro Qalauma, così come le solari giovani donne coraggiose del progetto Munasim Kullakita, l’ospitalità di Riccardo Giavarini, volontario di ProgettoMondo Mlal da quasi 40 anni, e di tutti coloro che ci hanno accolto e reso partecipi di ogni aspetto della vita lì, e che ci hanno insegnato che pace, amore e rispetto non sono la meta: sono la via.
Grazie.
E il nostro è un grazie in cui racchiudiamo anche la promessa del ritorno.

De todo corazòn,
Yasmin Bachtri, dell'Istituto Tecnico Commerciale Piovene di Vicenza

lunedì 9 marzo 2015

Quattro seminari sulla cooperazione europea

FOCSIV e Pontificia Università Lateranense, in collaborazione con CeSPI e Concord Europe, presentano, nell’ambito del MASTER in Nuovi orizzonti di cooperazione e diritto internazionale, 4 Seminari di approfondimento sulla cooperazione dell’Unione Europea con particolare riferimento alla programmazione 2014-2020.
Con la nuova programmazione 2014-2020, l’Unione europea ha riordinato e aggiornato il suo approccio alla cooperazione allo sviluppo. Il nuovo pacchetto di strumenti e linee tematiche prevede un finanziamento di oltre 80 miliardi di euro. Alcuni strumenti sono rimasti pressoché identici, altri sono stati rinnovati. Contenuti e attori nuovi entreranno a far parte della cooperazione. Nuove opportunità ma anche nuove sfide si presentano. Per questo è necessario prepararsi e immaginare innovazioni.
L’obiettivo è di preparare professionisti capaci di operare sulle nuove linee finanziarie dell’Unione Europea, sui nuovi contenuti e attori, sulle procedure di progettazione, gestione e rendicontazione. Come metodologia i seminari prevedono accanto a presentazioni di esperti europei (si richiede conoscenza della lingua inglese) e italiani, sessioni di lavoro in comune, simulazioni ed esercizi, a cui si accompagnano incontri con rappresentanti istituzionali della Commissione e del Parlamento europeo, e di istituzioni italiane.
La partecipazione ai Seminari è aperta a operatori di organizzazioni della società civile, di Enti locali, del cooperativismo e dell’imprenditoria.

Programma dei seminari:

· 20/21 marzo “Il nuovo quadro di programmazione della cooperazione allo sviluppo dell'Unione Europea: strumenti e attori”
· 17/18 aprile “La cooperazione europea per gli attori locali”
· 8/9 maggio “Global challenges and common goods programme”
· 19/20 giugno “Nuovi meccanismi di gestione dei progetti comunitari”

Per ulteriori informazioni, iscrizioni, scadenze e costi:
· visita la sezione formazione del sito
· Scarica il Bando
· Scarica la scheda d’iscrizione · contatta la Segreteria Organizzativa (tel. 06.68 77 796 – spices@focsiv.it)

martedì 24 febbraio 2015

Il film Ghorba porta il Marocco a Torino

La parola araba “Ghorba” si può tradurre come “il sentimento di estraneità in un contesto in cui si è stranieri e lontani dalla patria”. Il film documentario "Ghorba. In terra straniera" dei Todomodo, Claudio Di Mambro, Luca Mandrile e Umberto Migliaccio, è stato prodotto da ProgettoMondo Mlal e Suttvuess nel 2009, e verrà proiettato a ingresso libero mercoledì 25 febbraio alle 21 al Cecchi Point – Hub Multiculturale in Via Antonio Cecchi, 17 a Torino.
Il film documentario (di cui qui sotto è proposta un'esaustiva intervista extra), attraverso le storie di vita di alcuni migranti marocchini, che oggi vivono in Italia, cerca di dare forma al termine arabo, raccontando le difficoltà quotidiane che deve affrontare chi decide di lasciare il proprio paese: la lontananza dagli affetti, la mancanza di una rete sociale, i problemi con i documenti, il lavoro spesso irregolare, situazioni abitative precarie e infine la formulazione di prospettive per il futuro. Il film sarà introdotto da Luca Mandrile, dai rappresentanti dell'ong Progettomondo Mlal che ha sostenuto il progetto e da Stefano Grossi di Videocommunity; sono stati invitati a partecipare alcuni protagonisti del film che ora vivono a Torino.
Dopo il successo dell'appuntamento organizzato lo scorso 11 dicembre, la rete delle realtà culturali composta dall'Associazione Museo Nazionale del Cinema, Associazione Riccardo Braghin, Videocommunity, Artemuda, Il Piccolo Cinema, INARA e Amnesty International organizza così un secondo appuntamento cinematografico dedicato alla cultura e alla comunità marocchina di Torino.



La proiezone seguirà all'apericena marocchina organizzata alle 19.30 al CecchiMangia. Il ricavato dell'appuntamento culinario (a offerta libera a partire da 10 euro) andrà a sostenere il progetto Io e mio fratello di Abdelmjid El Farji, che per l'occasione lancerà la campagna di crowdfunding internazionale del film che parte da esperienze direttamente vissute dall'autore; un lungometraggio autobiografico che racconta e denuncia un atto di razzismo subito da uno studente immigrato insieme a suo fratello e la sua decisione di protestare usando l'arte come arma. Per sostenere il progetto, potete donare a Banca Intesa San Paolo, Iban: IT81Q0306967684510323343247 intestato a Abdelmjid El Farji. Casuale: Io e mio fratello. Tel: 3272325175, mail: abdelfargi@yahoo.fr.
A fine serata, la produzione del film di Io e mio fratello omaggerà con una sorpresa il pubblico presente in sala. Nel corso della serata sarà presente Amnesty International con la raccolta firme “SOS Europe. Le persone, poi le frontiere’’ in difesa dei diritti umani di profughi e migranti.

Per maggiori informazioni: Associazione del Museo del Cinema 3475646645, cinema@cecchipoint.it; Il Piccolo cinema 3493191552, info.ilpiccolocinema@gmail.com; ArTeMuda 3357669611, artemuda@yahoo.it; Amnesty 3343335134, c.gottardi@amnesty.it

giovedì 12 febbraio 2015

Il cerchio delle donne tra cibo e riflessioni

Preparando insieme il salame di cioccolato si è concluso, per noi del Servizio Civile, il ciclo di incontri mensili con le mamme dei ragazzi della scuola media Monte Cristo di Chimaltenango. Dalle chiacchierate individuali con alcune mamme, era emerso fin dall’inizio un generale bisogno di condividere con altre signore la propria esperienza. Da quest’osservazione era nato lo scorso maggio il “cerchio delle donne”: un incontro al mese rivolto soltanto alle madri dei ragazzi, in cui potersi conoscere e confrontare sulle proprie difficoltà e sulle proprie gioie, come madri e come donne.
La struttura degli incontri è nata insieme alle signore stesse: nel primo avevamo chiesto a loro aspettative, necessità e desideri riguardo al tempo che avremmo passato insieme, e da loro è nata l’idea di utilizzare la cucina come mezzo di espressione e di condivisione.
Abbiamo iniziato noi con la pizza, e poi a turno le signore hanno portato nuove ricette: si è cucinato sempre insieme e, dopo aver preparato la ricetta, il tempo di cottura è stato dedicato a una riflessione di gruppo. Poi si mangiava tutte insieme, con un buon caffè. L’incaricata della riflessione era la stessa signora che avrebbe portato la ricetta.
Da quella prima riunione di maggio il gruppo è cambiato molto: all’inizio tutte molto timide e silenziose, si sono pian piano aperte, fino a instaurare amicizie che coltivano anche al di fuori del centro educativo. L’obiettivo che ci eravamo prefissate è quindi stato raggiunto: le donne si incontrano per confrontarsi, in uno spazio totalmente loro in cui portare se stesse.
Cucinando, sporcandosi le mani, “facendo” è molto più facile conoscersi: si ride, si impara l’una dall’altra, e imparando si cresce, senza nemmeno rendersene conto. Questo è quello che è successo a me durante gli incontri: stare con queste mamme, avviare con loro il “cerchio delle donne” è stata una delle esperienze più belle di questo Servizio Civile.
Noi ora torniamo in Italia, ma il gruppo continuerà a incontrarsi. Non abbiamo fatto nulla se non dare uno spazio ed esplicitare un bisogno (condividere, non rimanere più sole), ma poi tutto è stato creato dalle signore. Questo mi ha insegnato tanto, come educatrice e come donna: le persone hanno risorse incredibili, se si danno loro ascolto e spazio per esprimerle.

Elisabetta Caglioni
Servizio civile Guatemala
Progetto Edad de Oro Monte Cristo

martedì 10 febbraio 2015

NEW WAVES. Il Festival del Cinema Africano tutto l'anno

Secondo appuntamento del Festival Tutto l’Anno. Anche per febbraio, la terza domenica del mese, al Cinema Teatro Santa Teresa, le luci di sala si spengono su un corto e un lungometraggio della 34esima edizione del Festival di Cinema Africano di Verona, ancora inediti per il pubblico veronese. Domenica 15 febbraio alle 21 al Cinema Teatro Santa Teresa sarà la volta di NI SISI (prima visione nazionale) e ZAKARIA.

Ni Sisi
, nato come progetto teatrale della compagnia S.A.F.E. GHETTO, in risposta alle violenze post elezioni del 2008, è stato replicato per due anni nelle baraccopoli di Nairobi, sugli altopiani del Kenya e in tutta la provincia. In seguito, in concomitanza con le elezioni del 2013, è diventato, grazie al regista Nick Reding, un lungometraggio.
Il film racconta il passaggio da una società multietnica e integrata a una realtà pre-elezioni, caratterizzata da un'atmosfera di tensioni razziali fomentate dalle campagne elettorali dei politici, che hanno fatto della diffidenza e della paura il loro manifesto elettorale.
A precedere Ni Sisi, sarà il cortometraggio Zakaria di Leyla Bouzid. Il corto, che ha ricevuto la menzione speciale da parte della Giuria ufficiale per la sezione SHORT AFRICA, racconta la storia di un uomo di origini algerine, Zakaria appunto, che conduce un'esistenza tranquilla, con la moglie e i suoi due figli, in un paesino nel Sud della Francia.
Alla notizia della morte del padre Zakaria decide di tornare in visita in Algeria portando con sé tutta la famiglia. Questa scelta però provocherà uno scontro con la figlia Sarah. Il cortometraggio di Bouzid mette a confronto due generazioni su un tema quanto mai attuale: le questioni dell'identità e della migrazione.

I REGISTI:

Nick Reding è un attore e regista inglese con una lunga esperienza di televisione, cinema e teatro. Nel 2002 fonda la compagnia teatrale S.A.F.E. GHETTO (Sponsored Arts For Education) in Kenya, progetto che utilizza il teatro di strada per educare, ispirare e far nascere un cambiamento sociale nelle comunità su temi di vitale importanza come, ad esempio, l'Hiv e il razzismo. Oltre ai corti Kandanda e Huruma ha diretto il pluripremiato lungometraggio Ndoto Za Elibidi. Nonostante la Compagnia teatrale assorba la maggior parte del suo tempo, Nick ha recitato in diversi film, tra i quali: The Constant Gardener, Soul Boy, Silent Witness, Blood Diamond, The First Grader e Strike Back. Attualmente vive e lavora in Kenya.

Leyla Bouzid nasce a Tunisi nel 1984, dove diventa attivista dell’Associazione dei giovani registi tunisini. A 18 anni, dopo il diploma, si trasferisce a Parigi per studiare letteratura francese presso l’università Paris-Sorbonne. Dopo aver frequentato il corso di regia alla Fémis, inizia la sua carriera nel cinema come assistente alla regia per diversi film e nel 2006 co-dirige il suo primo cortometraggio, Sbeh el Khir. Il suo vero esordio dietro la macchina da presa risale al 2010 con il cortometraggio Un ange passe. Nel 2012 con il film Soubresauts vince il Gran Premio della Giuria al Festival Premiers Plans. Zakaria è il primo cortometraggio che realizza anche come produttrice.

A questo appuntamento del FESTIVAL TUTTO L’ANNO seguiranno altre tre date, il:

15 MARZO con Keys, Money, Phone e Dakar trottoirs
19 APRILE con Shadow Tree e Rock the Casbah
17 MAGGIO con Mboté! e Printemps tunisien