venerdì 11 settembre 2015

Un sorriso grande tra pioggia e fango

La mia nuova vita rurale comporta una serie di attività campestri, tra cui l’approvvigionamento di letame per il mio orto. Una ricerca non semplice a Dano, dove rarissimi sono i grandi allevamenti, e spesso si usa per concimare i resti del miglio o del sorgo, i cereali usati per fabbricare la birra locale, il “dolo”. Il mio guardiano/ortolano/tuttofare, Bienvenu, (Benvenuto) mi segnala che un Pastore (di chiesa protestante) vende il mitico e vero letame “animale”. Approfitto della pausa pranzo per caricare la carriola in macchina e fiondarmi ad acquistarlo. Scendo dal 4X4 d’ordinanza e affondo fino a metà polpaccio nel prezioso concime: poco male, c’è subito qualcuno pronto ad aiutarmi a ripulire la scarpa incriminata.
Nel frattempo un acquazzone violentissimo mi costringe a cercare riparo sotto il tetto di una chiesa protestante. Ed è in quel momento che, incurante della pioggia scrosciante, una bambina sorridente mi viene incontro di corsa nel mio “rifugio provvisorio” e mi porge emozionata la mano… Non do troppa importanza al gesto, lì dove sono, con i piedi bagnati, calzino e pantaloni aromatizzati al letame. Ma poi, tornando in ufficio, ci ripenso. Sono quei piccoli gesti spontanei, espressione di interesse, curiosità, amicizia disinteressata, che nella nostra realtà italiana abbiamo completamente perduto. E che, anche qui in Burkina Faso, per un cooperante “di città e ufficio”, potrebbero non accadere mai, o semplicemente non condizionare minimamente il mio tran tran fatto di fogli Excel, rapporti, schede di monitoraggio, e-mail, organigrammi. Ma questa volta il grande sorriso gratuito della bambina, l’aver sfidato pioggia e fango soltanto per toccarmi, per entrare in relazione con me… mi emoziona, mi rimette al mondo. Mi riporta insomma dritto al vero motivo per cui oggi sono qui: la mia continua sete di conoscenza, la mia curiosità e il bisogno di mettermi in gioco, il desiderio di entrare in contatto diretto con l’altro e con realtà così diverse da quelle a cui sono abituato, vite così dure e materialmente molto povere ma che mi stanno dando molto.
A distanza di oltre tre mesi dal mio arrivo, devo dire che non è sempre semplice vivere da queste parti. Sto sperimentando vari malanni: prima la malaria, poi disturbi gastrointestinali, dovuti molto probabilmente a parassiti contratti usando (non bevendo) l’acqua del pozzo in giardino. Vivo in una spartana casa di campagna. Non c’è né acqua corrente, né elettricità. Il primo bisogno si risolve semplicemente aggiungendo pastiglie di cloro all’acqua del pozzo, non ci sono rubinetti ma pentole, gusci di zucche, bicchieri, per versarsi l’acqua. Per ovviare al secondo bisogno, ho contrattato un ingegnere del Benin, che mi ha fatto un impianto elettrico con i pannelli solari. Malgrado alcuni ritocchi (a distanza di oltre un mese non riesco ad usare il frigo per un problema al convertitore), ho la luce in casa e, quando non piove eccessivamente, funzionano anche le prese. Mi piace la mia vita a basso impatto ambientale. Dopo l’orto, Bienvenu mi ha costruito il pollaio, e domenica ho preso quattro polli: un gallo e tre galline. Una vita di campagna, quindi, con un lavoro che però rimane di città.
Tra gli aspetti più belli di questa esperienza professionale, senza dubbio il fatto che mi permette di conoscere questo Paese. Entro in contatto con tanta gente, tantissime realtà: il Burkina-bene, delle autorità amministrative e sanitarie con cui collaboriamo, il Burkina semi-urbano di Bobo-Dioulasso, la città burkinabé dove si vive bene, a detta di tutti, (e a ragione, rispetto all’invivibile capitale), il Burkina dei miei colleghi, Il Burkina contadino di Dano, dove tutti, ma proprio tutti, ne sanno di agricoltura e allevamento: ma devo dire che in questi settori i burkinabé sono forti, sia i cittadini, sia i campagnoli. Tanti Burkina Faso. C’è un Burkina assistenziale che si aspetta la manna dal cielo dalle istituzioni straniere, o dal bianco di turno, e che spesso non si tratta di poveri, ma di persone che occupano posti di rilievo. Mi è capitato, durante un seminario, che un’autorità amministrativa si lamentasse dei nostri tassi di per diem, troppo bassi, non in linea con quelli che elargisce lo Stato… e dire che io ero già allibito dal solo fatto di dover “pagare”, oltre a prevedere pause caffe, pasti e rimborsi chilometrici, i partecipanti a un seminario di presentazione del progetto! Ed è iniziata la negoziazione, tra un boccone di riso al pesce e un sorso d’acqua in sacchetto di plastica…”.
Il Burkina che fa sentire più a mio agio, è il Paese delle persone semplici, sorridenti, che ti salutano e appena possono ti danno la mano, adulti o bambini, uomini e donne. C’è un Burkina che corre dietro, un po’ goffamente a modelli stranieri, visti come “giusti”, da seguire, che si riempie la bocca di parole come “sviluppo”, “progresso”, “modernità”, “civilizzazione”, in continuo confronto con i modelli dei Paesi “ricchi”. Perché poi? Lo sviluppo deve per forza passare per l’emulazione dei modelli dei Paesi occidentali? Mi fa pensare il fatto che non esista una traduzione precisa del termine “sviluppo” in molte lingue locali… perché questo continuo confrontarsi? Viviamo realtà molto diverse. Diverse, ma non abbiamo modelli da imporre. O forse sì? Lo credono quegli stessi burkinabé, che riproducono e anelano alle vite dei bianchi/occidentali, vincitori dello scontro tra civiltà?
Io dal mio villaggione di Dano, tabulati di Excel permettendo, osservo e cerco di riflettere. Di tenere a mente quali sono le motivazioni che mi hanno spinto fin qui. Di non perdere la bussola. Di rendere il miglior servizio possibile a questo mondo che, fin da quando sono adolescente con la presunzione che mi ha sempre caratterizzato, voglio contribuire a cambiare “in meglio”.

Cristiano Bassanini
ProgettoMondo Mlal Burkina Faso

giovedì 3 settembre 2015

La domenica di Haiti

È domenica, non c’è neanche una nuvola. Il cielo è azzurro Caraibi. Caldo. Arriva l’acqua, faccio il bucato, riempio secchi e bidoni, e mi preparo per andare a messa. I cinque minuti di passeggiata fino alla chiesa sono sufficienti per arrivare fradicio di sudore e attirare i risolini dei presenti. Sì perché, la domenica mattina a messa, gli abitanti di Papaye sono impeccabili. È giorno di festa e lo si vede anche dall’abbigliamento curato, pulito, stirato, scarpa in pelle per l’uomo, tacco per la donna, volant di tulle, treccine e perline multicolori per le bambine.
A quest’ora, chi non è già in chiesa è intento a lavare i panni, la moto e a fare le pulizie di casa. Nel mio tragitto verso la chiesa, noto che la famiglia Monerot si è divisa equamente i compiti: gli uomini si occuperanno della casa e le donne possono andare a messa. La nonna guida la delegazione composta da Ketoun, fresca di maturità, Laura, Lenski e Mikerly. Laura e Mikerly, le due bimbe, portano un vestitino rosa bonbon improponibile dalle nostre parti, ma quanto mai bello da queste.
Bisogna fare presto perché è d’obbligo essere in chiesa prima dell’arrivo del prete (che viene dalla cittadina di Hinche) e d’altra parte c’è solo una messa, questa messa. Nonostante questa sia considerata una parrocchia, non c’è una sagrestia. Così, al di fuori delle celebrazioni, il corpo di Cristo viene ospitato nella cappella della Casa dei Petits frères Sainte Therèse.
Oggi il compito di animare la messa tocca al gruppo Kiro, un movimento giovanile ispirato a San Paolo molto attivo soprattutto nel nord Europa e in Africa. Il jazz, come lo chiamano in creolo, è essenziale per far vivere bene la celebrazione e oggi siamo al completo: tamburo, maracas, gratwa, bambo soffiato e percosso. Nelle occasioni speciali, in realtà, vengono aggiunti anche strumenti elettrici come il basso e la chitarra, ma oggi è un giorno qualsiasi e la corrente non c’è, come nelle altre 48 domeniche dell’anno. In compenso, ormai da qualche mese, c’è il microfono, una sorta di karaoke a batterie che, a ogni parola o suono amplificato, cambia colore, giallo, verde, blu. A noi fa sorridere, improponibile dalle nostre parti ma quanto mai bello da queste.
Questa mattina oltre a père Allens, il parroco, c’è père Delacruz, responsabile dell’ufficio OPM in Haiti che con cipiglio deciso celebra la messa. L’omelia è interattiva, prevede scambi di opinioni e interrogazione finale ai fedeli presenti. Il celebrante è il primo a battere le mani a tempo durante il canto del Santo, a muoversi a ritmo di musica al termine della consacrazione, ad improvvisare una benedizione comunitaria dopo avere diligentemente citato tutti coloro che in settimana hanno festeggiato i propri compleanni. A suo tempo, anche noi tre (io, mia moglie e la piccola Marta) siamo stati benedetti in questa chiesa e questo ci ha fatto sentire parte e figli della comunità. Improponibile dalle nostre parti, ma quanto mai bello da queste.
Mi ha sempre affascinato, e particolarmente coinvolto, l’aspetto socioculturale e religioso della messa della domenica ad Haiti. Qui la fede e la cultura locale si mescolano, si integrano, sembrano dialogare e rispettarsi. In questo piccolo villaggio, dove siamo presenti come ProgettoMondo Mlal, mi pare tutto più vivo e, parallelamente, che tanto ancora si può costruire, a partire dal concetto stesso di famiglia: spesso infatti siamo l’unica famiglia che seduta nello stesso banco assiste alle celebrazioni. In compenso, liturgicamente parlando, mi sento più partecipe di quello che succede durante la funzione rispetto a ciò che viene celebrato e del motivo perché io sono in chiesa. Il momento più ricco e toccante resta naturalmente la Comunione che, ad Haiti, si fa con pane e vino, corpo e sangue di Cristo, come credo debba essere. Perché è improponibile dalle nostre parti?

Michele Magon
ProgettoMondo Mlal Haiti

martedì 1 settembre 2015

Nada ha cambiato, todo ha cambiado

Sono rientrati dalla Bolivia i 5 studenti dell'Istituto Commerciale Piovene di Vicenza (Yasmin Bachtri, Hitta Rattnia, Giulia Grandinetti, Bragian Maldonado, Davide Pontarin) e lo studente della facoltà di fisica dell'Università di Padova (Luca Biasiolo).
Sono stati 24 giorni di viaggio, dal 21 luglio al 13 agosto, accompagnati da Ornella Zordan, la loro ex insegnante di spagnolo e da Gianni Cappellotto di ProgettoMondo Mlal.
L'idea del viaggio è nata da una serie di attività svolte durante l'anno scolastico durante le quali si sono approfonditi temi come il servizio civile internazionale, la cooperazione e il volontariato, con lezioni, visite e collegamenti skype con la Fondazione Munasim Kullakita di La Paz.
Durante il viaggio, oltre a visitare le attività di ProgettoMondo Mlal, hanno incontrato le ragazze ospiti dell'hogar gestito dalla fondazione Munasim con Riccardo Giavarini, passato una giornata a Qalauma con i ragazzi detenuti beneficiari del progetto, conosciuto Aurelio Danna e alcuni componenti dello staff del progetto Qutapiquina e sperimentato i servizi di turismo responsabile offerti da tre comunità della rete Tusoco, La Chonta nel parco Amborò, Livichuco, nella zona andina tra Challapata e Potosì, e infine ActusoL, sull'Isla del Sol nel Lago Titicaca.
Ecco una testimonianza sull’esperienza:
Siamo tornati da poco più di una settimana alla vita di sempre, i soliti posti, le faccende da sbrigare.
Mentre noi, con la nostra brama illimitata bruciavamo l’asfalto in trufi, percorrendo le strade talvolta caotiche e talvolta silenziose di questo colorato Paese, sentendoci quasi in un’altra dimensione e perdendo la concezione del tempo…, qui tutto continuava come prima seguendo il suo corso. Tanto che, rimmergendoci nella ‘vita normale’, pare quasi che, nel frattempo, niente sia cambiato. Eppure tutto è cambiato.
Semi nuovi che impercettibilmente qualcuno ha gettato stanno germogliando in qualche parte di noi, alimentati dal desiderio di tornare ed esprimere ancora la nostra gratitudine dando il nostro contributo.
Ancor più che un desiderio: una necessità.
Com’è strana la vita. Il corso delle cose, gli avvenimenti che si susseguono..
Nel nostro viaggio in Bolivia, da Santa Cruz verso La Chonta nella Selva Amazonica, da Buena Vista a Cochabamba, da Cochabamba a Livuchuco, e poi ancora verso il Salar de Uyuni, le miniere di Potosì, La Paz, El Alto e infine la straordinaria Isla del Sol.
Queste le tappe di un itinerario all’insegna del rispetto socio ambientale, fra comunità indigene, città e natura, ed esperienze che ci hanno arricchito anche a livello di conoscenza interiore, perché è così, è tutta una strada verso noi stessi.
Superati i timori iniziali sono curiosità e sete di conoscenza ad averci sopraffatti, che abbiamo soddisfatto non attraverso le pagine di libri, ma attraverso sguardi diversi, parole d’una intensità nuova, storie e persone che ci hanno infuso un coraggio prima sconosciuto ed una forza più tenace, perché cosa certa è che con una consapevolezza bisogna mettere piede in una terra nuova: via i pregiudizi, osservare con umiltà. Sapere che siamo noi gli stranieri, noi che dobbiamo imparare. Come osservare senza essere invadenti ed indiscreti?
Al principio gli sguardi che si ricevono sembrano essere talvolta di diffidenza e quasi di rifiuto (in fondo noi siamo “gringos!”).
Ma come decifrare questi occhi nuovi? Cosa c’è nel cuore di questa gente, quali sono le loro preoccupazioni? Mille domande a cui si vorrebbe subito trovare risposta.
Non bisogna avere fretta, perché l’umiltà e la pazienza vengono ripagate, e l’accoglienza ricevuta in quella terra lontana non ha prezzo.
Dal caloroso coinvolgimento ricevuto nelle comunità conosciute grazie a Red Tusoco, ai vari incontri con Don Aurelio, doña Anita, Roberto e lo staff di ProgettoMondo Mlal, che con entusiasmo e passione ci ha dato la possibilità di conoscere nello specifico progetti come quelli di Qalauma, Munasim Kullakita, Hilando Culturas o Q’utapiquiña, mettendoci in diretto contatto con gli stessi componenti delle fondazioni e comunità coinvolte, ciò che ci ha accresciuto di più è scoprire quant’è ricco il mondo di persone così, forti e positive, ottimiste e piene d’amore per la vita e per gli altri, nonostante tutto, verso un rispetto sempre maggiore per la nostra grande madre: la Pachamama.
Un viaggio, questo, intervallato da incontri unici di una potenza rara, nuovi amici che sentiamo molto più vicini di quanto la distanza fisica possa far pensare: mai dimenticheremo i ragazzi del Centro Qalauma, così come le solari giovani donne coraggiose del progetto Munasim Kullakita, l’ospitalità di Riccardo Giavarini, volontario di ProgettoMondo Mlal da quasi 40 anni, e di tutti coloro che ci hanno accolto e reso partecipi di ogni aspetto della vita lì, e che ci hanno insegnato che pace, amore e rispetto non sono la meta: sono la via.
Grazie.
E il nostro è un grazie in cui racchiudiamo anche la promessa del ritorno.

De todo corazòn,
Yasmin Bachtri, dell'Istituto Tecnico Commerciale Piovene di Vicenza