Una delle cose più piacevoli dell'arrivare in un nuovo Paese è scoprire poco a poco la sua cucina, i nomi dei suoi prodotti, nuovi saperi e nuove maniere di mangiare. In nessun posto mangiare è cosa banale: perché alimentarsi è diverso dal semplice nutrirsi, bisogna sempre costruire una relazione con il cibo, scoprire da dove viene e chi lo produce, imparare come si consuma, condividerlo con altre persone.
In Bolivia, poi, la questione alimentare è particolarmente complessa per svariate ragioni storiche, politiche ed economiche. In generale è un Paese che sta vivendo una transizione sociale importante e questo implica enormi conseguenze a livello alimentare.
La questione della quinoa, ad esempio, credo sia emblematica per descrivere questa realtà.
Particolarmente legata al mondo del “biologico” e del “dietetico”, la quinoa è diventata nel giro di una decina d'anni un prodotto popolare e sempre più disponibile sui nostri mercati.
L'anno appena trascorso era stato dichiarato dalla FAO l'anno internazionale della quinoa. A livello globale si sono quindi sprecati i discorsi sui benefici di questa pianta, uno pseudo-cereale perfettamente adattato al clima rigido e al suolo povero degli altipiani andini, base quindi dell'alimentazione della Bolivia pre-ispanica e prodotto con grande potenziale commerciale per l'attualità (La Bolivia ne è il secondo produttore mondiale dopo il Perù e ne rappresenta uno dei principali prodotti di esportazione).
Proprio per questo il governo Morales si è enormemente speso in questa iniziativa, in Bolivia si è fatto un gran parlare della quinoa come soluzione alla “sicurezza” e alla “sovranità alimentare” nazionale attraverso un modello di sviluppo agrario biologico e alternativo, e ugualmente ne è stata osannata la componente identitaria indigena.
Quello che però si osserva in Bolivia mostra, a mio avviso, una realtà totalmente differente: raramente ho infatti visto dei boliviani mangiare quinoa (se non in contesti molto specifici come il mercato biologico in cui lavoro). Questo probabilmente per due motivi: primo, il costo proibitivo per la maggior parte della popolazione (nel supermercato sotto casa un chilo di riso vale 9 pesos bolivianos mentre 300g di quinoa ne valgono 38); secondo, per la sua connotazione ancora negativa e legata a un passato di povertà e marginalizzazione (pensiamo alla nostra polenta, ora rivalutata in chiave tradizionale ma fino a qualche decina di anni fa visto come un cibo povero da sostituire con altri prodotti).
La quinoa si è quindi convertita, nel giro di qualche anno, da "comida de indio" a "comida de gringo"; da cibo dei più poveri e marginali, cioè, a cibo per stranieri: un prodotto “sano”, “dietetico”, “biologico”, “tradizionale” per l'esportazione, e di conseguenza molto caro.
Non è e non è mai stata un alimento popolare per i boliviani, che invece si riconoscono di più nella gastronomia coloniale, o che comunque puntano al modello alimentare occidentale nelle sue varie declinazioni.
Un altro aspetto interessante da sottolineare è quello del grande impatto ambientale e sociale che è conseguito a questa “moda” della quinoa. L'intensificazione agricola sta infatti rompendo il fragile equilibrio ecologico degli altipiani andini, si stanno poi accentuando le disparità tra produttori e comunità a seconda che riescano o meno a produrre un prodotto conforme all'esportazione.
Insomma la contraddizioni si sprecano nel contesto alimentare boliviano. Da una parte il discorso politico, scientifico, mediatico; dall'altro l'immaginario della gente, le convenienze commerciali ed economiche, le necessità produttive. Da un parte la potentissima e ricchissima agro-industria delle pianure tropicali, dall'altra la sussistenza di molte comunità rurali. Da una parte gli sprechi alimentari e la malnutrizione, dall'altra le sacche di denutrizione che rimangono in molte città e zone rurali. In mezzo c'è la realtà, complessa e sfaccettata, probabilmente indescrivibile se non a costo di approssimazioni e semplificazioni.
È chiara quindi la difficoltà dell'operare sul tema questione alimentare senza sbilanciarsi: bisogna rispondere solo alle volontà della popolazione locale? E come fare se questa va contro i criteri di sostenibilità e giustizia del sistema agro-alimentare? Come educare senza imporre un punto di vista? Come dialogare per costruire un'alternativa?
Anche il mondo della cooperazione si confronta a queste domande e sulle risposte a queste costruisce i propri obiettivi e progetti. Basandomi sull'esperienza che mi aspetta durante i prossimi mesi spero anch'io di potere andare oltre delle semplici riflessioni e potere dare qualche risposta in più.
Marco Goldin
Casco Bianco ProgettoMondo
Cochabamba, Bolivia
lunedì 5 maggio 2014
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